LE RELIQUIE DI SAN GIACOMO IN ITALIA


LA LEGGENDA DI SANTIAGO

La “Legenda aurea” di Jacopo da Varazze (secolo XIII), riprendendo un’antica tradizione, narra che, dopo Pentecoste, a Giacomo Maggiore toccò in sorte l’evangelizzazione della Spagna. Qui giunto, Giacomo si diede a predicare, ma con scarsi risultati. Sconfortato, stava per ritornare a Gerusalemme, quando, nei pressi dell’attuale Saragozza, il 2 gennaio del 40 gli apparve la Vergine sopra un pilastro (pilar). Maria, rinnovandogli l’invito di tornare, gli chiese di edificare per lei in quel luogo una chiesa, che avrebbe reso Saragozza uno dei più fervidi luoghi di culto di tutta la cristianità. Giacomo fece edificare la chiesa del Pilar, ancora oggi visibile all’interno della Cattedrale di Saragozza, e andò ad imbarcarsi a Tarragona. Tornato a Gerusalemme, subì il martirio per decapitazione sotto Erode Agrippa e fu sepolto, ma Teodomiro e Atanasio, suoi discepoli, ne trafugarono le spoglie. Giunti a Jaffa si imbarcarono, raggiungendo, con l’aiuto della Provvidenza, le coste della Galizia. Qui a Padron, all’estuario del rio Ulla, il corpo di Giacomo fu sbarcato e adagiato su una pietra che, prodigiosamente, si fuse come cera prendendo la forma di un sarcofago. Dopo ulteriori vicissitudini le reliquie dell’apostolo furono sepolte in un cimitero sul monte Libredon, con Teodomiro e Atanasio. Per lunghi secoli si persero le tracce del sepolcro, finché intorno agli anni 813-840, un eremita di nome Pelagio, guidato da fenomeni celesti, rintracciò la tomba di Giacomo. Questo ritrovamento fu interpretato come un assenso divino a quella che sarebbe diventata la leggendaria Reconquista cristiana della Spagna. Sul luogo del sepolcro di Giacomo sorse l’odierna città di Santiago di Compostela, (da Compositum Stelae, cimitero delle stele, per via delle lapidi mortuarie). Sin dal IX secolo Santiago divenne meta di pellegrinaggi e nel corso del tempo prese forma il Camino de Santiago, ancora oggi percorso da migliaia di pellegrini.

  • L’apostolo Giacomo è il santo dei pellegrini, ma san Rocco, san Martino di Tours e san Cristoforo lo sono ugualmente.
  • Per la sua immagine a cavallo in battaglia, è patrono dei crociati, dei cavalieri e di tutti quelli che vanno a cavallo.
  • È altresì patrono degli agonizzanti e degli impiccati poiché, secondo quanto racconta Jacopo da Varazze, fece resuscitare un giovane impiccato ingiustamente. Le sue confraternite della buona morte aiutano le genti nel trapasso della morte, con l’estrema unzione con l’olio santo, ed il santo sul cavallo bianco accompagna le anime lungo la via Lattea verso il Cielo.
  • È patrono dei farmacisti, dei negozianti di prodotti chimici e farmaceutici e anche dei droghieri per l’assistenza ai pellegrini.
  • È patrono dei cappellai per via del petaso, il largo cappello da pellegrino, e dei fabbricanti di calze e di zoccoli per il suo legame con i piedi e i pellegrini.
  • È patrono dell’Ordine di Cluny, che protesse e promosse il pellegrinaggio alla sua tomba.
  • È invocato principalmente contro i reumatismi, dato che i pellegrini, che dormivano per terra ed erano esposti alla pioggia, ne erano facili vittime.
  • È invocato per l’abbondanza del raccolto delle mele, poiché quelle precoci maturano per la sua festa, il 25 luglio.
  • Poiché in questo tempo si raccoglie il fieno, in onore di Giacomo fanno festa i pastori.
  • È invocato contro i tuoni e fulmini, perché si credeva che fossero gli zoccoli del suo cavallo che li provocavano e perché si racconta che Giacomo e Giovanni avessero il potere di inviare fulmini per incenerire. Da qui il loro soprannome: “figli del tuono”. Quindi, nei campi e villaggi e nei passi di montagna, lo si invoca come protezione.

LE RELIQUIE

Le reliquie dei santi, ripeteva un teologo del XII secolo, sono i mezzi attraverso i quali i fedeli possono resistere al potere del male nel mondo; danno salute al corpo dell’uomo e assoluzione alla sua anima: «Il corpo di Elia dà la vita ai morti e toglie ai vivi l’angoscia della morte». Anno 386: la maggior parte dei santi, le cui reliquie sono venerate nel IV secolo, furono martiri dell’ultima persecuzione. Ma con un susseguirsi di spettacolari scoperte (“invenzioni”) tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, il numero delle preziose reliquie a disposizione aumenta considerevolmente. L’esplosione avviene con il ritrovamento fatto da sant’Ambrogio nella basilica di Milano: mentre stava consacrando la basilica in presenza di una grande folla, Ambrogio scava la terra sotto i suoi piedi e scopre due corpi non identificabili che sostiene essere Gervasio e Protasio, due personaggi fino ad allora del tutto sconosciuti; le spoglie vengono subito raccolte dalla folla e venerate come reliquie di santi e martiri. L’evento non poteva avvenire in un momento più opportuno, dato che l’imperatrice Giustinia, seguace di Ario, stava in quel momento cercando di espellere Ambrogio dal suo vescovato. Non è escluso che l’“invenzione” sia stata studiata attentamente per fini politici; tuttavia, non c’è dubbio che la scoperta delle “reliquie” abbia avuto una grande influenza sui suoi contemporanei. Iniziato dalla “scoperta” di Sant’Ambrogio, il commercio delle reliquie visse un momento magico. Non solo una nazione, ma una regione, una città o un individuo acquisiva un nuovo status quando riesce ad avere una preziosa reliquia. Per un collezionista il corpo di un santo può valere più dell’oro. Il culto dei santi era un contrappeso alla paura del male. Proprio come le persone tendevano ad associare il male a oggetti familiari, così cercano di impartire qualità umane alle forze del bene. La mancanza di criteri per stabilire l’autenticità delle reliquie ha alimentato una anarchia in cui molte chiese hanno affermato di avere la stessa reliquia, ognuna scoperta per rivelazione ed ognuna ugualmente ritenuta vera. Per questi motivi, la Chiesa ha prima cercato di fermare la marea dei sogni e delle visioni. Il Concilio di Cartagine del 401 denuncia “le vuote rivelazioni che alcuni suppongono di aver avuto durante il sonno” (canone XIV). Il culto delle reliquie mette in luce il problema della Chiesa medievale che è accusata di favorire la superstizione popolare e di ostacolare lo sviluppo intellettuale, e la causa è solitamente l’avidità di denaro e di beni in proprietà del clero.

LE RELIQUIE DI SAN GIACOMO APOSTOLO

I resti scheletrici e alcuni oggetti che potrebbero essere appartenuti o essere stati in contatto con l’apostolo Santiago il Maggiore sono depositati nell’urna d’argento della cripta della cattedrale di Compostela (dice la Chiesa). Nel corso della storia, reliquie e corpi di Santiago sono stati invocati in altre parti d’Europa, ma gli unici autenticati dalla Chiesa – l’ultima volta nel 1884 – sono quelli nella cattedrale di Compostela e un frammento osseo conservato a Pistoia (Italia) donato dall’arcivescovo di Santiago, Diego Gelmírez (XII secolo) all’amico Atto (Atón), vescovo di questa diocesi italiana. Si ritiene che questa possa essere l’ultima reliquia estratta dallo scheletro attribuito a Santiago, prima che il suo sepolcro diventasse inaccessibile, poiché vi fu sovrapposta una struttura per l’altare maggiore della cattedrale romanica (XII secolo).

L’impareggiabile potere delle reliquie

Tutti gli storici concordano sul fatto che le reliquie dei santi, in particolare di coloro che erano stati in diretto contatto con Cristo, i suoi apostoli, erano essenziali per i pellegrinaggi sorti in Europa durante il Medioevo. Fu un processo iniziato intorno al II secolo, quando i cristiani cominciarono a conservare le spoglie dei santi, non solo per venerazione e rispetto, ma anche -e questa è la novità- per il loro potere di intercessione davanti a Dio. Il medievalista Fernando López Alsina sottolinea che “i santi, specialmente i martiri, che avevano suggellato il loro trionfo con la morte, furono invocati come potenti protettori celesti nella lotta individuale del credente contro le forze del male. La capacità di intercessione e taumaturgica del martire si accresceva, se veniva invocato nella vicinanza fisica delle sue reliquie, nella sua tomba. Una combinazione di entrambi i principi ha dato origine al pellegrinaggio penitenziale”. Anche per l’esperto tedesco Robert Plötz, il culto delle reliquie è determinante per l’origine del pellegrinaggio: “Le reliquie erano considerate le porte del paradiso, poiché i martiri, in particolare, attendevano davanti all’altare subito dopo la sua morte, come promesso nell’Apocalisse”. Se le reliquie erano rilevanti, lo era ancora di più la presenza di corpi santi di cui si conosceva il sepolcro. È il caso di Santiago, che ha legato a questa condizione -l’ubicazione della sua tomba- quella di essere un apostolo di Cristo – solo le tombe di Pietro e Paolo a Roma potevano oscurarlo- e quella di essere stato il primo martire tra i apostoli. Non potrebbe esserci intercessione più significativa. A tutto ciò si aggiungeva il valore penitenziale del pellegrinaggio dall’Europa al suo lontano sepolcro all’estremità occidentale del mondo conosciuto, nel Finis Terrae, nella cui direzione viaggiavano le anime dei defunti, reminiscenza di antiche credenze pagane, ancora presenti nell’immaginario popolare.

Nel corso del XVI secolo, le posizioni di rinnovamento della Riforma misero in discussione il valore di intercessione delle reliquie. La Chiesa cattolica reagì alle critiche con una prima ricerca di maggiore rigore. Tuttavia, dopo questo periodo, è tornata la normalità delle reliquie come questione di fede e non di scienza, che ha fatto sì che alla loro realtà storica – vedi i processi di autenticazione come quello di Santiago nel 1884 – si sovrapponeva il bene che producevano nell’anima del credente.

Il corpo di Santiago

Con il supporto di imprecise notizie europee esistenti fin dall’VIII secolo su una sepoltura occidentale dell’Apostolo, la tradizione compostellana sostiene che il suo corpo, una volta decapitato a Gerusalemme, sia stato recuperato dai suoi discepoli, trasferito in barca alla costa della Galizia e sepolto in un luogo della diocesi di Iria Flavia. Nei primi decenni del IX secolo in quel luogo, identificato come Monte Libredón e successivamente come Compostela, furono scoperti la sua tomba e i suoi resti. Ecco, dunque, il suo intero corpo. Nonostante questa tradizione, si è sempre dubitato che i resti fossero completi o meno.

È noto che la sua testa viene conservata nel tempio armeno di San Giacomo di Gerusalemme, che la tradizione considera luogo del suo martirio.

La Chiesa di Compostela, forse per la sua distanza spaziale e culturale, ha a malapena rivaleggiato con gli Armeni in questa materia. Invece si è sentita molto più turbata dal fatto che altri luoghi d’Europa fossero considerati depositari del corpo o di alcune reliquie del santo. Già il Codex Calixtinus (XII secolo) reagisce furiosamente a queste affermazioni. Nel suo libro V: “Anche questo corpo [di Santiago] è considerato immobile, secondo la testimonianza di San Teodomiro, vescovo della stessa diocesi [Iria Flavia], che lo trovò molto tempo fa e non poté spostarlo. Che arrossiscano di vergogna, allora, i rivali trans-pirenaici, che dicono di avere una parte di lui o delle sue reliquie. Perché il corpo dell’Apostolo è lì intero [a Santiago], divinamente illuminato di rubini celesti, lodato da inesauribili e fragranti aromi divini, adornato con splendenti candele celesti e costantemente onorato con doni degli angeli”. Nonostante questo, il problema delle reliquie si aggravava per il fatto che dai tempi dell’arcivescovo Gelmírez (XII secolo) non potevano essere viste dai pellegrini. Sarebbero nell’antica edicola sepolcrale dopo aver eretto su di essa il nuovo altare maggiore della basilica. È un mistero il motivo per cui Gelmírez non ha mantenuto o rafforzato il loro valore, collocandoli in un luogo attraente accessibile al culto. Ecco perché la tradizione compostellana si è mostrata prudente dal XII secolo alla seconda metà del XIX secolo. Si dice poi che furono nascosti nel XVI secolo, quando il corsaro inglese Francis Drake attaccò la costa della Galizia, rimanendo dispersi nei secoli successivi. Tuttavia, la posizione delle reliquie era un argomento tabù molto tempo prima. Il pellegrino tedesco Arnold von Harff (1496-1498) tentò, con grandi offerte, di farsele mostrare, ma senza successo: “Mi hanno detto che non è consuetudine mostrarlo; che il santo corpo di Santiago è sull’altare maggiore, e che chiunque lo dubitasse impazzirebbe come un cane rabbioso nello stesso momento. Questo mi è bastato”. Non è l’unica testimonianza in questo senso. L’incertezza si è risolta agli occhi dei credenti quando sono stati cercati e collocati nella cattedrale stessa nel 1879, grazie agli sforzi del cardinale Payá y Rico. La successiva autenticazione da parte di papa Leone XIII (1884) rimise le cose al loro posto e fece tornare il pellegrinaggio a Santiago un fondamento essenziale: la reliquia, elemento fisico di intercessione davanti a Dio, la cui presenza reale è consustanziale al pellegrinaggio che la conduce. È difficile credere all’attuale successo del pellegrinaggio giacobeo senza l’immediatezza fisica delle spoglie apostoliche.

I critici

L’oscurità storica che circonda le reliquie di Santiago ha fatto più volte dubitare diversi settori appartenenti alla stessa Chiesa. Si è detto anche che a Compostela fosse in realtà sepolta una donna di origine galiziano-romana – la regina Lupa della traslazione di Santiago – o l’eretico Priscilliano (IV secolo). In generale, questo tipo di proposte sostitutive non ha mai avuto successo popolare e quasi mai è venuto dalla Chiesa ufficiale. Solo Roma e alcuni settori spagnoli rifiutarono con forza durante parte del Medioevo la possibilità che san Giacomo apostolo fosse l’evangelizzatore della penisola. Nonostante ciò, la tradizione riuscì a sopravvivere grazie al sorprendente successo del pellegrinaggio giacobeo. Un’ispezione è stata effettuata nel 1993, ma i suoi risultati non sono mai stati pubblicati. La Chiesa sostiene che non sono mai stati testati per il carbonio 14. Sono state avanzate timide richieste in tal senso, senza successo.

Le Reliquie di Santiago in tutta Europa

La presunta esistenza di reliquie di Santiago sparse per il continente europeo non ha mai soddisfatto la Chiesa di Compostela. Solo Pistoia (Italia) è accettata come autentica. (N.d.R.: ma in realtà vengono riconosciute come vere anche altre reliquie). Tuttavia sono numerose le chiese che dicono possedere spoglie di Santiago e ci sono anche diversi luoghi che affermano addirittura di possedere il corpo intero. Le principali si trovano in Francia. Nel corso dei secoli, le chiese di Angers, Tolosa e Isère, tra le altre, hanno affermato di avere il corpo di Santiago. Frammenti dell’Apostolo sono stati localizzati in alcune parti della Galizia e della Spagna (Merida, ad esempio) e in paesi come il Regno Unito, l’Italia, il Belgio, la Danimarca.

Una mano discussa

Tra quelli che hanno avuto più eco, ricordiamo la famosissima mano dell’abbazia inglese di Reading. L’arcivescovo Adalberto di Brema (XI secolo) l’avrebbe ricevuta a Roma dal vescovo veneziano Vitale di Torcello. Robert Plötz racconta che la preziosa reliquia entrò a far parte del tesoro imperiale di Enrico IV, che finì poi a Matilde, moglie del figlio Enrico V. Lei la portò in Inghilterra e suo padre, Enrico I, la donò all’Abbazia di Reading, da dove fu trasferita alla chiesa cattolica di San Pietro di Marlowe, dove si trova tuttora.

Queste le date citate:

1133 — portata all’Abbazia di Reading

1220 — miracoli di ‘water of St James’

1539 — Monaci nascondono la reliquia nelle mura dell’Abbazia durante la Dissolution of the Monasteries

1786 — un muratore ritrova la cassetta delle reliquie e la consegna al Reading Museum

1840 — La reliquia viene venduta a J. Scott Murray e posta nella sua cappella privata in Danesfield House, Reading and Marlow.

1882 — alla sua morte, posta in St Peter’s Church, Marlow, dove é tuttora.

La stessa mano, invece, da Torcello non si sarebbe mai mossa dal 635 d.C. fino a maggio 2022, e viene presentata come la sola vera reliquia portata dalla Terrasanta nel 375 d.C. ad Altino, sede vescovile prima del trasferimento a Torcello e qui custodita in cattedrale per secoli fino al 22/05/2022 quando viene trasferita a la iglesia de san Giacometo di Venezia.

Sono state citate anche altre mani, come nella chiesa di Saint-Vincent de Châteauneuf-en-Thymerais o quella che era in possesso del re Filippo II, che sarebbe passata all’Ordine di Santiago alla sua morte. Meritano una menzione anche il braccio esistente a Troyes, la testa della cattedrale di Nevers, un frammento del piede esistente nel convento di Notre-Dame de Namur (Belgio), il dente e parte dell’osso di un braccio del famoso Ospedale di Santiago di Parigi, una famosa reliquia venerata a lungo a Venezia, ecc. Sebbene alcuni dei frammenti fossero citati come di origine compostellana, la stragrande maggioranza era di origine sconosciuta. In Spagna si fa riferimento a resti attribuiti a Santiago a Burgos, Tortosa, Villafranca de Montes de Oca, Sahagún, León, Santiago de Peñalba, Sobrado dos Monxes, ecc. Nel 1881 padre Fita ne fece un ampio elenco. Sarebbero stati necessari diversi corpi di Santiago per dargli un senso. Si dice anche che López Ferreiro e Labín Caballo, che ritrovarono le reliquie nel 1879, ricevettero ciascuno un piccolo frammento delle ossa attribuite all’Apostolo. Labin lo avrebbe portato nella sua terra cantabrica.

Le reliquie di san Giacomo in Italia

1) PISTOIA (Regione Toscana)

Nel 849, gli abitanti di Pistoia, temendo che la città sia invasa dai saraceni che erano già alle porte di Roma, chiedono all’apostolo Giacomo la sua protezione, ricordandosi che in analoghe circostanze il re Ramiro di Spagna aveva anche lui chiesto l’aiuto del santo. Pistoia non é invasa e, in segno di ringraziamento per la grazia ricevuta, i cittadini fanno di San Jacopo il loro patrono e costruiscono una chiesetta nel primo cerchio delle mura, vicino al castellare, nel 1131 (? da 849 a 1131?) e la chiamano San Jacopo in Castellare.  Si legge in “Pistoia e il suo territorio” che San Jacopo in Castellare è, tra tutte queste, la più nota proprio per le sue connessioni al culto jacobeo. È detta “in Castellare” perché edificata in una zona sopraelevata sulla quale insistevano le mura cittadine e dove esistevano fortificazioni del X secolo.  Documentata dal 1131, sostituì una precedente chiesa paleocristiana, come è apparso dagli scavi nella navata che hanno messo in luce un’abside primitiva molto più arretrata di quella attuale.  L’edificio di oggi è frutto delle modifiche della metà del Duecento: navata più lunga e aggiunta delle cappelle laterali che trasformarono la pianta della chiesa da basilicale a croce latina.  Con la soppressione del 1784, fu trasformata in lanificio, dove lavoravano le fanciulle povere ospitate nelle Scuole normali leopoldine (adesso archivio di stato) e poi in oratorio per le stesse Scuole. Alcuni interventi ne hanno confermato una notevole qualità architettonica. Quanto agli affreschi, solo in parte scoperti, rivelano fasi esecutive e decorative diverse, da quella duecentesca a quella più ampia del secolo successivo. Una scultura dell’arredo originario della ex chiesa si trova oggi al Museo civico: la “Missione di San Jacopo”, del XIII secolo. San Jacopo in castellare oggi è la sede dell’Archivio storico. La storia documentata racconta che il culto di San Jacopo a Pistoia conosce il suo apogeo quando ricevono una reliquia del santo da Compostella. Gli archivi dell’Opera di San Jacopo, una istituzione di laici nata nel 1160, parlano d’un certo Ranieri, un ecclesiastico di Pistoia formato alla scuola del vescovo Atto, spagnolo, che parte per approfondire la sua formazione spirituale. Tra la Francia e l’Inghilterra, fa’ tappa in Galizia ed a Compostella, dove diventa un personaggio della chiesa compostellana. Vista la situazione, il vescovo Atto, desideroso di offrire a Pistoia una reliquia del santo venerato, chiede a Ranieri di fare opera di mediazione per ottenerne una dall’arcivescovo e dai canonici di Compostella. L’Arcivescovo Didaco, per esaudire le richieste pressanti del vescovo Atto e del diacono Ranieri, a lui caro, fa aprire il sarcofago con il corpo dell’apostolo e introduce una mano per prenderne una ciocca di capelli. Ma, con la ciocca viene via anche un piccolo frammento d’osso. Due cittadini pistoiesi sono inviati per prendere in carico la reliquia: Mediovillano e Tebaldo. Il loro ritorno a Pistoia ai primi di luglio del 1144 é accolto con grandi celebrazioni. Per conservare la preziosa acquisizione venne costruita nella Cattedrale di San Zeno una cappella dedicata a San Jacopo, consacrata il 25 luglio del 1145, dove era posto un altare su cui é esposto il reliquario di San Jacopo apostolo attribuito a Lorenzo Ghiberti. Il reliquiario, in argento dorato, si compone di tre teche: in basso si trova quella più grande che custodisce diverse reliquie di santi non più identificabili per i danni ricevuti in occasione di un incendio del 1588, la teca al centro contiene un osso dell’anca della madre di Giacomo il Maggiore Maria di Salome che, giunta a Pistoia nel 1407, potrebbe aver suggerito la realizzazione dell’intero reliquiario. Il frammento osseo di San Giacomo Apostolo che il vescovo Atto fece arrivare a Pistoia da Santiago di Compostella nel 1144, è invece conservato nella teca più alta a forma di tempietto rinascimentale realizzata all’inizio del XVII secolo. La presenza degli angeli instaura uno speciale dialogo tra mondo celeste e terrestre, presentando il reliquiario come una preziosa ‘arca’ di santità.

Oggi, nell’Antico Palazzo dei Vescovi è ospitato il Museo Capitolare, dove si trova l’originaria sagrestia del Tesoro di S. Jacopo (sec. XII), con il reliquiario di S. Jacopo (1407). Del Tesoro di san Jacopo sono custoditi pregevoli pezzi gotici e rinascimentali. Nella parete sud del Cortile del Palazzo Comunale è presente una scultura in pietra di San Jacopo, manifattura pistoiese dei primi decenni del sec. XV. Nelle Sale affrescate al piano terreno si trova un affresco votivo di S. Jacopo opera di ignoto pittore pistoiese (1438), con affreschi della Madonna e di S. Zeno. Al primo piano, nel Museo Civico, si può ammirare, oltre a numerosi dipinti con iconografia jacobea, un rilievo marmoreo con la Missione di San Iacopo, proveniente dal distrutto portale dell’antica chiesa San Jacopo in Castellare. Fu così che la cappella con apposito altare, dedicato a San Jacopo, diventò subito meta di pellegrinaggi. Lì, infatti, si veniva a chiedere protezione per il lungo viaggio. Fra il 1170 e il 1180 gli statuti comunali ricordano una “festa di San Jacopo”.  Fin da allora, tuttavia, il culto per l’apostolo risultava sotto la tutela non più del vescovo, ma del comune di Pistoia. Nel corso del 1200 quest’ultimo adottò San Jacopo come proprio protettore e patrono della città, apponendo la sua immagine sui propri sigilli. Il periodo delle solenni celebrazioni religiose iniziava il giorno antecedente quello della festa con una imponente processione di tutta la comunità; raggiungeva il suo culmine per il 25 luglio, e poi continuava per i successivi otto giorni (“Ottava di San Jacopo”). In questo periodo si teneva una grande fiera annuale o “mercato”, che garantiva immunità a chi vi partecipasse, eccetto i criminali ed i banditi. La giornata festiva, caratterizzata durante la mattina da una serie di cerimonie liturgiche molto suggestive in onore del santo patrono, si concludeva nel tardo pomeriggio con una manifestazione concepita come omaggio a San Jacopo: la corsa del “Palio”. Essa prendeva nome dalla lunga pezza di stoffa pregiata (pallio) che ne costituiva il premio. Vi partecipavano cavalli purosangue di razza berbera montati da fantini che spingevano gli animali al galoppo sfrenato lungo un percorso che é variato durante il tempo. Si trattava perciò di una gara di velocità in lungo, che evidenziava soprattutto le qualità dei cavalli. Tra la fine del’700 e durante l’800 occasionalmente andò ad aggiungersi a questo Palio, una serie di corse in tondo, lungo il circuito di una piazza, generalmente piazza San Francesco.

2) FIRENZE- quartiere di san Jacopo oltrarno (Regione Toscana)

La chiesa risale probabilmente ai secoli X-XI e fu edificata in stile romanico dando il nome al borgo che le si formò intorno, tra il ponte della Trinità e Ponte Vecchio. Giovanni Villani (secolo XIII) la cita come già esistente nel 1078, quando si costruì la seconda cerchia delle mura. La chiesa era nota anche perché il suo priore, nella ricorrenza del 25 luglio festività di san Jacopo (così com’era detto a Firenze l’apostolo san Giacomo Maggiore), organizzava a sue spese il Palio dei Navicelli in Arno. Infatti alla sera, fino dal lontano 1250, i barcaioli disputavano a furia di vigorosi colpi di stanga la tipica “regata”, sullo specchio d’acqua fra Ponte Vecchio e la pescaia di Santa Rosa. La partenza dei navicelli avveniva dal greto su cui sorge, sui caratteristici sporti, l’abside della chiesa che i fiorentini indicano affettuosamente come la “chiesa col culo in Arno” perché nei momenti di piena quando il livello del fiume aumenta, le acque vanno con impeto a bagnare la sua parte absidale. Dal 1542 ressero la chiesa i frati Francescani Minori Osservanti, nel 1575 essa fu ceduta ai Canonici regolari di San Salvatore a Scopeto, detti Scopetini, che avevano avuto chiesa e convento distrutti nel 1529. Nel 1580 fu rimontato davanti alla facciata il portico romanico antistante alla antica chiesa degli Scopeti. Una lapide sulla porta della chiesa rammenta che il portico venne riedificato a spese di Cosimo I de’ Medici nel 1580, su progetto di Bernardino Radi. Nel 1703, Cosimo III ordinò agli Scopetini di cedere i locali ai Padri della Missione, detti Barbetti per il loro pizzetto, venuti da Roma. Le quattro compagnie di San Jacopo in Oltrarno (o del Nicchio), di San Girolamo, di San Paolo e di Sant’Antonio Abate costituivano le confraternite fiorentine, dette buche, caratterizzate dalla pratica della flagellazione, dalla disciplina e dall’uso di riunirsi in preghiera la notte. I confratelli di tali compagnie erano detti “battuti” e, a seconda del loro saio, bianchi o neri. Di origine trecentesca, la Compagnia di San Jacopo era detta anche del nicchio (conchiglia), attributo del patrono san Jacopo (la conchiglia di capasanta veniva data ai pellegrini che visitavano Santiago di Compostela che, come il loro santo protettore, potevano usarla per abbeverarsi); postasi sotto la protezione spirituale dei Vallombrosani, possedeva una cappella attigua alla chiesa con accesso dal Borgo. La Compagnia sopravvisse a lungo col nome di Buca di San Jacopo e Santa Felicita: essa fu infatti tra le nove salvate da Pietro Leopoldo nel 1785 e tutt’oggi si occupa di carità. Lavori effettuati dopo l’Alluvione di Firenze hanno rimesso in luce le antiche colonne romaniche incassate nell’interno barocco, che sono oggi visibili nei pilastri. La chiesa è attualmente officiata dalla comunità ortodossa, con fedeli di rito orientale greco e di diverse altre nazionalità balcaniche e orientali. All’esterno pare dimessa e poco curata, ma l’interno è molto luminoso come è caratteristico del rito ortodosso

Una segnalazione del professor Miguel Tain dell’Università di Santiago di Compostella mi ha spinto a fare delle ricerche in loco, poco fruttifere. Un inventario del 1486 racconta che furono ritrovate due reliquie di san Giacomo il maggiore in una colonna, durante lavori di restauro: un dente ed un pezzettino di cranio. cfr. RICHA, G., Notizie istoriche delle chiese fiorentine, Firenze, 1754-1762, 10 vols: vol.X, 346, 349 e 351. Finora non ne ho avuto notizie dai nuovi possessori dei luoghi NDR

3) Capizzi (Messina- Regione Sicilia) – una reliquia contesa

Fondato nel XI secolo, il santuario di San Giacomo di Capizzi é la chiesa jacobea più antica dell’isola. Sito in piazza Umberto I, é conosciuto dal 1224 come uno dei più importanti di Sicilia con il nome di San Giacomo di Bethleem, confermato con il nome di Sanctus Jacobus di Belem nel 1308. Il culto jacobeo risale all’epoca normanna in una chiesetta al limitare del bosco in un luogo di romitaggio. La sua esistenza é dovuta ai legami stabiliti dal marchese Aleramici con la Terra santa. Dopo l’arrivo degli Aragonesi nel 1282 il culto del santo «spagnolo» si diffonde. Nel 1427 la chiesetta diventa un celebre santuario, grazie al dono fatto dal cavaliere aragonese Sancho De Heredia di alcune reliquie, tra cui la giuntura di un dito di San Giacomo Apostolo. Capizzi diviene grande meta di pellegrinaggio e la chiesa viene ampliata, da una a tre navate, proprio per accogliere sempre più fedeli, suscitando cosi l’invidia dell’Arcidiocesi di Messina, che nel 1435, grazie all’appoggio del re Alfonso, riuscì ad ottenere il trasferimento della reliquia nella città capoluogo. I capitini si ribellarono a questa decisione e la reliquia venne quindi spartita in due frammenti, metà a Messina, mentre l’altra parte rimase a Capizzi. Il santuario di San Giacomo ha la volta della navata centrale arricchita con degli affreschi, tra cui la battaglia di Clavijo del IX secolo. Al centro della navata, sulla volta troneggia l’aquila simbolo degli Aragonesi che vollero la costruzione del santuario. Sull’altare maggiore della navata centrale c’é la statua dell’Apostolo Giacomo all’interno dell’antico “fercolo”, utilizzato per portare il Santo in processione. Sull’altare contiguo al Santissimo Sacramento c’é una nicchia nella roccia in cui sono esposte tutte le reliquie di Capizzi e l’originale Stendardo donato da Pedro II d’Aragona, che permetteva alla città di non pagare imposte, dato che era posta sotto la protezione del re. La facciata principale del santuario, in una nicchia nella parte alta, ha una statua di San Giacomo Apostolo il Maggiore del 1883 ed anche una vetrata moderna dell’Apostolo con il bastone da pellegrino e le conchiglie. Ogni anno, le festività civili e religiose durano vari giorni, dal 16 al 26 luglio. Il 24 sera c’é la processione delle “Reliquie” con la partecipazione della Confraternita di S. Bartolomeo, della Confraternita di S. Giacomo e dei cittadini, partendo dalla chiesa madre fino al Santuario di S. Giacomo. Le reliquie racchiuse nella vara appartengono a S. Giacomo apostolo, S. Nicola di Bari, Santa Lucia, S. Sebastiano, S. Antonio Abate, S. Antonio di Padova, S. Bartolomeo, S. Giovanni, ed un frammento di legno della Croce. All’arrivo della processione seguono i primi Vespri solenni in onore di San Giacomo. All’alba del 25 luglio la tradizione vuole che si percorra a piedi nudi il lungo tragitto del giorno successivo. Il 26 é il giorno più atteso. Verso le 16h il Santo é trasferito dalla “vara in oro massiccio” dell’altare maggiore alla vara massiccia neoclassica per la processione dei “Miracoli”. Verso le 18h comincia la processione del Boanerges accolto da lanci di coriandoli, applausi, fuochi d’artificio della gente in festa. La vara portata a spalla dai fedeli comincia il suo percorso impetuoso nelle viuzze fino ad arrivare a Piazza Miracoli, dove i portatori si slanciano con foga contro il muro di una casa antica, colpendolo con i legni di sostegno del Fercolo. Si tratta di fare un buco e si contano i colpi, i “Miracoli”. Non si conosce esattamente il motivo, ma si suppone che quella fu la casa del cavaliere Sancho De Heredia, responsabile del trasferimento nel duomo di Messina di alcune reliquie che aveva donato prima a Capizzi. Da sempre, dicono gli abitanti di Capizzi, San Giacomo ha fatto i “Miracoli”, e se i colpi necessari erano pari, l’annata sarebbe stata buona; se dispari, bisognava aspettarsi disastri di ogni tipo. Altre fonti raccontano che, prima dell’avvento del cristianesimo, la casa fosse un tempio pagano che fu abbattuto con il “Fercolo” di San Giacomo e che la cosa si ripete come rituale sacro in ricordo. https://www.youtube.com/watch?v=Ze2U4gffW4I

4) CAMARO – quartiere de MESSINA (Regione Sicilia)

La più antica ed importante reliquia é “la giuntura del dito di San Giacomo”, dapprima trasferita in gran pompa a Capizzi, nei monti Nebrodi, dal cavaliere aragonese don Sancho de Heredia ed in seguito trasportata (in parte) a Messina dallo stesso personaggio nel 1430, con grande delusione delle genti di Capizzi. I resti della chiesa di San Giacomo “Matamoros” a Messina sono stati recentemente scoperti proprio dietro il Duomo. La chiesa fu distrutta da un tremendo terremoto. La Confraternita di S. Giacomo Apostolo il Maggiore, in Camaro Superiore, fu costituita nel 1550, come risulta dagli archivi della Curia e testimonia con certezza che la devozione a San Giacomo ha origini lontane, intorno all’anno mille, quando i Normanni portarono questo culto in gran parte della Sicilia, come risulta dai tanti luoghi in cui viene venerato. Dietro il Duomo di Messina, precisamente l’abside, esiste un “Largo San Giacomo” a ricordo dell’antica chiesa costruita all’epoca dei Normanni, fra XI e XII secolo. La parte laterale del Duomo di Messina è dedicata a S. Giacomo con una statua del Lucerna. Da una scrittura di Mons. Pantaleone Minutoli si legge che il 25 Luglio, la Festa di S. Giacomo si svolgeva in modo solenne. Le Reliquie donate alla Cattedrale di Messina da Don Sancho d’Heredia nel 1430, venivano in origine da Capizzi, che ancora oggi ne rivendica la proprietà. Erano portate ogni anno in processione per una funzione alla quale partecipava il Clero, il Capitolo della Cattedrale ed il Senato, con un rito particolare che si tramanda fino ad oggi. C. D. Gallo fa notare che la Confraternita di S. Giacomo del “casale Cammari” era sempre presente. Questo privilegio, certamente, doveva avere un buon motivo perché a nessun santo della città di Messina veniva concesso un simile rito. Il culto a San Giacomo è rinforzato durante la dominazione spagnola, tanto che viene dato incarico ai Juvara, noti argentieri del tempo, per la costruzione della varetta che esiste tuttora. Dall’atto notarile si riporta la data del 20 Gennaio 1666, Anno Santo Compostellano. Non meno accurata è la custodia del “Ferculum”, tanto che nel passato si è perfino arrivati a difenderlo con le armi ed a volte veniva smontato e distribuito fra i vari confratelli in modo che nessuno lo togliesse ai “Cammaroti”. Ogni anno, dalla chiesa di Camaro del XVI secolo, la processione di fine luglio vede l’arrivo al Duomo di Messina della Vara d’argento del Santo ed un rituale unico nel suo genere prevede il ritorno a tutta velocità a Camaro portata dai fedeli in ricordo del tentativo di furto avvenuto nel corso del XVIII secolo, come per scongiurare il pericolo che si ripeta. A Camaro é stato realizzato il “Museo S. Giacomo”, unico in Sicilia nella cultura del pellegrinaggio compostellano.

5) Caltagirone (provincia di Catania- Regione Sicilia)

San Giacomo Apostolo fu proclamato “Protettore della città di Caltagirone” dal conte Ruggero il Normanno nel 1090 in seguito alla sua vittoria sui Saraceni del 25 luglio. Fece erigere la Basilica del Santo fuori dalla cinta muraria verso ovest. Il terremoto del 1693 distrusse quasi del tutto la chiesa che fu ricostruita. Si racconta che solamente la cappella con la “Cassa Argentea ed il Fercolo del Santo” non fu toccata. Ecco perché la tradizione vuole che San Giacomo, dopo aver salvato la città dalle invasioni, la preserva dai terremoti. La devozione a San Giacomo continuò a perpetuarsi nei secoli e si accrebbe ancor più quando nel 1457 l’Arcivescovo Burgio donò alla Città un frammento dell’osso del braccio di San Giacomo preso dal Reliquiere di Manfredonia che fu incastonato in un braccio di platino con mano d’oro, per il quale furono realizzati la “Cassa Argentea” ed il “Fercolo” in legno dorato e argento, verso la fine del XVI secolo. Durante l’anno, nella Basilica è possibile ammirare il grandioso Fercolo di San Giacomo posto al centro del presbiterio, dietro l’altare maggiore, mentre la Cassa Argentea della Reliquia viene custodita nella cappella di San Giacomo, posta sul lato sinistro del presbiterio. Un nuovo fercolo, copia del precedente, é stato realizzato in bronzo e oro, la statua del santo é rimasta la stessa. Le festività durano parecchi giorni, dal 23 luglio fino al 1 agosto, con spettacoli, processioni, cortei storici e omaggi alle reliquie.

6) GRATTERI (provincia di Palermo – Regione Sicilia)

Non è stato trovato al momento alcun documento certo per poter stabilire la probabile data dell’elezione di San Giacomo a Patrono di Gratteri. Tuttavia Giuseppe Pitrè attesta che sin dai tempi della dominazione araba in Sicilia esisteva a Gratteri il culto dell’Apostolo Giacomo. Dice la tradizione che questo Santo intervenne visibilmente durante il combattimento di Ruggero d’Altavilla contro gli odiati Saraceni. Infatti, nella “Coroncina e le lodi in onore di San Giacomo”, lo si esalta perché “ai prieghi del gran Ruggero normanno, nel giorno della sua festività, visibilmente combattendo a favor suo, scacciò i Saraceni e liberò questo afflitto Comune dal loro giogo”. Ed aggiunge: “…Per pietà di noi / facesti dei re Mori orrendo scempio / e per Tua magione scegliesti queste mura e questo tempio”. Alla tradizione viene di conforto la storia, poiché tutti gli storici che si occuparono di Gratteri asseriscono che San Giacomo ne è il patrono e che verso il 1150, il citato Ruggero, assieme ad altre reliquie, volle far dono ai Signori di Gratteri di un osso del costato del Santo, il quale è tutt’oggi conservato in una teca d’argento e solennemente venerato. L’apostolo Giacomo, protettore di Gratteri, come ci ricorda il Passafiume nel suo saggio storico “De origine ecclesiae cephaleditanae” del 1645, dove si legge: «Di questo borgo (ove risiedono 1630 abitanti) è Patrono San Giacomo Apostolo, del quale si celebra solennemente la festa il 25 del mese di luglio, quando si porta in processione una statua lignea rivestita d’oro insieme con una preziosa reliquia costituita da una parte di costola dell’Apostolo. (Durante i festeggiamenti) vi sono giorni di mercato e si svolgono gare di corsa». Sino al 1860 la festa si celebrava con grande sfarzo e solennità il 25 luglio ed era preceduta da un pubblico mercato di otto giorni. Da quella data, per volontà popolare, la festa fu trasferita l’8 e il 9 settembre d’ogni anno. La festa minore si svolge comunque il 25 di luglio. Il simulacro è una statua in grandezza naturale in legno pregiato, rivestito d’oro zecchino e collocato sotto una cupoletta sorretta da colonnine di ferro. Il santo è rappresentato con il libro sotto il braccio, simbolo del vangelo e con il bordone di pellegrino nella mano destra, ornato nella stola rossa, simbolo del suo sacerdozio e del suo martirio. Collocato sul fercolo (“la vara”) che pesa diciotto cantàri (un cantàro sono 80 kg), per portarlo in processione per tutte le vie del paese durante la raccolta delle offerte (“questula”). A proposito di questa, il Pitrè così dice: “…il simulacro viene portato a spalla da sedici uomini tra i più poderosi della contrada, ed accompagnato dagli immancabili tamburi, suoni musicali, scampanii e spari di mortaretti. Di casa in casa, di porta in porta, viene fermato dinanzi tutte le famiglie, nessuna esclusa, attendendo l’elemosina, la quale consiste in denaro, grano, orzo, fave, olio, vino e uova, secondo la facoltà dei devoti […]. V’è chi non può, non v’è chi non vuole; ma il Santo si pianta lì, innanzi l’uscio, e non c’è verso che si muova finché la elemosina non venga. E viene: e gli evviva lo acclamano e la banda lo esalta […]. Il paese è percorso a palmo a palmo, fin nelle vie più ripide, negli anditi più tortuosi: né si teme il pericolo di andar a precipizio e rimanere schiacciati sotto il fercolo […]. Quando non c’è più nessuna casa da visitare, si esce per la campagna dai giardinieri, dagli ortolani, i quali, fedeli ad una antica consuetudine, han caro che il Santo venga con la sua figura a benedire il loro giardino, il loro orto e se si fa osservare che esso rimane danneggiato dalla folla che invade la terra, rispondono che quanto resta distrutto per la venuta del Santo spunterà presto più rigoglioso di prima… Quante volte si passa, sia in questua, sia in processione, dal convento di San Francesco, che il popolino ritiene cugino carnale di San Giacomo“. La festa termina con la solenne processione la sera del giorno 9 alla quale partecipano le Confraternite, il Clero, le Autorità cittadine ed una folla strabocchevole di paesani. Al termine della processione, nella piazza antistante la Chiesa Madre, dopo una solenne predica, avviene la benedizione con la reliquia del Santo, mentre i portatori s’inginocchiano reggendo il pesante fercolo sulle spalle. Nel silenzio più assoluto s’ode il grido di fede dei gratteresi: “E chiamamulu cu vera fidi!”. E risponde tutto il popolo: “Viva lu gran protettori S. Gniavicu!”. Dopo la benedizione il Santo viene riportato nella sua Chiesa e collocato nell’altare maggiore. (grazie a Totò Trumino per il suggerimento)

7) Mandas (provincia di Cagliari – Regione Sardegna)

Dopo essere diventato, verso l’anno 1000, capoluogo della Curatoria di Siurgus, Mandas é presente con i propri rappresentanti, nel 1355, al primo Parlamento sardo presieduto dal Re Pedro “Il Cerimonioso”. Diventa feudo dei Carroz prima e dei Maza de Liana poi. Fu proprio con l’ultimo dei feudatari di Valencia che, il 23 dicembre 1614, il re di Spagna, Filippo III, elevò il paese a Ducato, l’unico concesso dagli spagnoli in Sardegna. Raggruppando 16 comuni, durerà fino al 1843 quando i Ducati furono vietati in Sardegna. Il complesso monumentale, alla periferia del paese, comprende la chiesa di S. Giacomo, con una struttura gotico-aragonese del XVI secolo. SAN GIACOMO APOSTOLO (santu Jacu in sardo): Della festa in onore di San Giacomo Apostolo, sicuramente importata dagli spagnoli, abbiamo la nota scritta nella seconda metà del 1500 quando la comunità di Mandas, per onorare il nuovo patrono, costruì un imponente santuario.  Una delle pagine della tradizione orale mandarese racconta che ogni anno, durante la transumanza, i pastori delle Barbagie viaggiavano con un piccolo simulacro dell’apostolo San Giacomo, il Maggiore. I pastori sostavano là dove oggi c’è la chiesa parrocchiale, ma un giorno il simulacro diventò così pesante che nessuno poteva spostarlo. Decisero allora di affidarlo ai mandaresi per far costruire là una chiesa dell’apostolo loro protettore. Un’altra variante della leggenda parla di un viaggio d’una statua del Santo, da Cagliari verso le zone interne dell’isola, per arrivare a una chiesa a lui dedicata. La coppia di buoi che tirava il carro con la statua, una volta giunti a Mandas, non si mosse più ed allora la statua resto’ li’.  Questo per le leggende. Dai documenti conservati negli archivi storici parrocchiali si sa che nel 1593, Petiano Carena era ” obrer de St. Jaume (operaio di santu Jacu)”, mentre il Rettore Bassu aggiunge che “la Iglesia Parroquial, cuyo titular es Santiago Apostol el Mayor no se sabe quando se empesso la fabrica de dicha Parroquial, bien si se concluio la dicha fabrica el anno 1605, la que se hizo a gastos de la mesma Iglesia (la chiesa parrocchiale di san Giacomo, di cui non si conosce la data di costruzione, fu finita nel 1605 con fondi propri)”. La necessità dei lavori deriva dal fatto che Mandas, capoluogo della Curatoria di Seurgus e dunque dei possedimenti dei nobili Maza Carroz, doveva diventare secondo il futuro Duca Pedro Maza Ladron il loro centro politico ed economico. Una conferma ci viene data dalla presenza della “Cappella Ducale” e del blasone ducale sulla facciata della chiesa ed al suo interno del bassorilievo con il Santiago Matamoros, il solo in Sardegna. Al suo interno ci sono anche gli altari in legno del XVIII secolo, quello di San Giacomo del 1712 e delle statue lignee, tra cui quella di San Giacomo del XVII secolo. Il reliquario contenente resti di San Giacomo, di San Francesco di Sales, di Sant’Ignazio da Laconi, di San Francesco di Paola, di San Salvatore da Horta, è stato rubato nel gennaio 2012 e recuperato nel febbraio. Tutto o quasi a Mandas fa’ riferimento a san Giacomo apostolo (santu Jacu) e al Ducato. La festa annuale si svolge il 24 parte religiosa con messa solenne, corteo nelle vie del paese, ed il 25, parte profana con concerto di musica e pranzo collettivo.

8) VENEZIA (chiesa di san Giacometo) – Regione Veneto

La basilica di Santa Maria Assunta, nell’isola di Torcello, conservava un’importante reliquia del santo: il suo braccio destro, insieme alla mano completa. Reliquia che ora ha raggiunto la sua sede finale nella chiesa di San Giacometo, la cui fondazione risale al 25 marzo 421 (data simbolica della fondazione di Venezia, tuttavia presente anche in un’iscrizione marmorea del presbiterio), per essere riposta definitivamente sull’altare di sinistra, lato sacrestia. Il presidente dell’Arciconfraternita di San Cristoforo e della Misericordia, Giuseppe Mazzariol:” In occasione dei 1600 anni della fondazione della città di Venezia (dunque anche della chiesa) ho voluto avviare una ricerca storica e ad inizio 2021 ho trovato una notizia che mi ha fatto sussultare: il 25 marzo 421 la chiesa di San Giacometo venne consacrata con una reliquia di San Giacomo Apostolo dal vescovo Ilario di Altino, residente a Torcello, arrivato a “Rivus Altus” (Rialto) con un corteo di imbarcazioni, trasportando la reliquia usata per consacrare la chiesa. Poi venne riportata a Torcello, dove è rimasta fino ad oggi”. Quindi le sue vicende storiche sono davvero tutte da scoprire. E risalgono al vescovo Eliodoro di Altino, scomparso intorno alla fine del 300 e sepolto proprio presso l’altare della chiesa dell’isola dove risiedeva. «Anche se avrebbe voluto tutto il corpo, come si legge negli atti, prima di morire riuscì a farsi consegnare da Gerusalemme il braccio destro del santo». Portata la reliquia ad Altino nel 375 d C, ci rimase fino al 635 d C quando venne trasferita nella cattedrale dell’isola di Torcello, dove è rimasta fino al 22 maggio 2022. Altino, fin dal VII secolo a.C. principale porto dei Veneti affacciato sull’Adriatico, di fatto una città romana, ebbe circa 20-30.000 abitanti, circondata ed attraversata dall’acqua, una città anfibia, dove ci si muoveva già fra ponti e barche, con un centro monumentale imponente, con ville lussuose, con una campagna florida alle spalle. Sede vescovile fino al IV secolo, decade poi e la diocesi viene trasferita a Torcello. Questa reliquia di san Giacomo il Maggiore del 375 é l’unica anteriore alla “inventio” dei resti dell’apostolo nel Monte Libredon tra 813 e 840 in Galizia ed é esattamente del periodo in cui le reliquie di santi cominciano ad essere al centro di traffici vari, come ho citato all’inizio della ricerca. Evidentemente non viene riconosciuta dall’arcivescovato di Compostella ed in teoria dal Vaticano. Ma come stiamo vedendo in numerosi casi di reliquie in Italia, la realtà storica ed i documenti presentati aprono altre prospettive. Il custode delle reliquie della chiesa di san Giacomo a Venezia mi ha citato con orgoglio l’antichità della mano e la sua autenticità. A mia precisa domanda sulla donazione della stessa mano da parte del vescovo di Torcello all’arcivescovo Adalberto di Brema nel XI secolo per l’imperatore Enrico e quindi a Matilde, sua nuora, che sarebbe finita a Reading in Inghilterra, mi ha risposto che la reliquia non si è mai mossa da Torcello! Venezia è sempre stata al centro del commercio marittimo del Mediterraneo e con legami speciali con la Palestina. Da Venezia partivano i pellegrinaggi via mare per la Terrasanta e per Santiago di Compostela con salvacondotti speciali. Il parroco auspica che san Giacometo diventi nuovamente centro di pellegrinaggio in nome di Santiago. “Hoc circa templum sit jus mercantibus aequum, pondera nec vergant, nec sit conventio prava”, “Intorno a questo tempio sia equa la legge del mercante, giusti i pesi e leali i contratti”. E’ questa l’iscrizione riportata nel XII secolo, all’esterno dell’abside della Chiesa di San Giacometo a Rialto, che conferma l’antica connessione tra questo luogo di culto e il mercato. La chiesa di San Giacometo, ai tempi della Serenissima, ha ospitato l’altare di molte Scuole di Mestiere: l’altare maggiore fu, fino alla fine del ‘400, della Scuola dei Compravendipesce; poi la Scuola dei Ternieri e Casaroli, che vendevano olio alimentare, miele, formaggi, carni suine fresche e salate.  La statua che decora l’altare rappresenta San Giacomo, protettore di entrambe le confraternite, ed è opera dello scultore Alessandro Vittoria (1525-1608). L’altare nella navata sinistra apparteneva invece alla Scuola degli Oresi, Zogielieri e Diamanteri (orefici, gioiellieri e tagliatori di diamanti); bisogna ricordare che gli orefici veneziani, erano abilissimi nella tecnica della filigrana, chiamata opus veneciarum e nel taglio dei diamanti. La Scuola che raggruppava i Garbeladori de Comun (setacciatori di granaglie e di legumi), i Ligadori de Comun (facchini addetti all’imballaggio) ed i Bolladori de Comun (marchiatori degli imballi), ottenne l’uso dell’altare dell’Annunciata situato nella navata destra della chiesa. E’ la chiesa più antica? La tradizione considera la chiesa di San Giacometo la più antica di Venezia, costruita nel 421 da un carpentiere, un certo Candioto o Eutinopo, che si sarebbe votato a san Giacomo perché spegnesse un grave incendio. Tutt’ora, molti veneziani vogliono continuare a considerarla la prima chiesa di Venezia, malgrado fonti storiche abbiano dimostrato che l’edificio è più tardo e la sua costruzione, tra l’XI e il XII secolo, è coeva al Mercato di Rialto. La facciata è dominata da un grande orologio (1410) sovrastante un piccolo porticato gotico, in pietra e in legno, unico esempio originale rimasto a Venezia. Dal campo San Giacometo si può osservare il lungo porticato detto del Banco Giro (Banca circolante di Credito), un tempo luogo di contrattazioni di facoltosi mercanti. La reliquia di San Giacomo, conservata da secoli nella Basilica di Santa Maria Assunta a Torcello, arriva nella chiesa che, a Venezia, porta il nome dell’apostolo. Il braccio destro del santo, conservato all’interno di un’urna, è stato trasportato a bordo di una tradizionale bissona nella chiesa di San Giacometo di Rialto, in una suggestiva cerimonia a cui ha preso parte, nel pomeriggio di oggi, domenica 22 maggio, il consigliere comunale delegato alla Tutela delle tradizioni. A seguire la bissona un corteo con le imbarcazioni delle remiere. All’arrivo della reliquia è stata celebrata una messa solenne dal patriarca Francesco Moraglia, a cui hanno partecipato autorità civili e militari, gli Ordini Equestri e i rappresentanti delle Scuole Grandi di Venezia. A richiedere la traslazione della reliquia è stata l’Arciconfraternita di San Cristoforo e della Misericordia, rappresentata dal presidente Giuseppe Mazzariol. La reliquia di San Giacomo Apostolo e la chiesa di San Giacometo sono legati alla data individuata, tra storia e leggenda, della fondazione di Venezia (421).

9) Monte Grigliano di Vago di Lavagno (Verona- Regione Veneto)

Il documento più antico della presenza di una chiesa dedicata a san Giacomo apostolo è un atto di donazione, secondo cui, il 30 maggio 1390, il Giudice Ardimento, della contrada di Falsorgo, cede al Notaio Dosso di Brandello di S. Fermo Maggiore: « unam peciam terre costivam et garbam cum uno oratorio seu edesia in ea esistente sub vocabullo Sancti Jacobi apostoli fundata seu fundato, cum una domo sive moriono ad modum unius Toracii murati undique et cum una seconda versus sero copata et murata in parte, positam in pertinentia Lavanei in hora Grigiani … » Nell’atto di donazione si afferma, inoltre, che gli Ardimenti non solo godevano la proprietà di quel luogo « ab immemorabili », ma da molti anni avevano anche il beneficio dello ius patronatus sulla chiesa esistente. Esisteva, dunque, una chiesa sul Grigliano, già molto tempo prima del 1390, come si è visto nell’atto di donazione. La scoperta delle reliquie. La storia comincia intorno al 1395 sul colle chiamato Grigliano, dove si rinvenne, vicino alla torre campanaria della vecchia chiesetta, un’urna con le presunte spoglie dell’apostolo San Giacomo. Gli storici veronesi non si trovano concordi sulle date: tra il 1393 ed il 1397, il 22, 24 o 25 maggio. La divergenza dei particolari lascia capire che si tratta solo di una leggenda, ma alcuni fatti sono realmente accaduti. Dalla Corte, nella sua “L’Istoria di Verona” (1592), narra con toni alquanto romanzati gli avvenimenti : “Nel vigesimo quarto giorno del mese di Maggio, zappando un certo contadino Filippo sul nostro Monte di Grignano, che è cinque miglia discosto dalla città, scoperse a caso una bellissima e molto antica sepoltura, nella quale, come per alcune lettere, che sopra quella erano intagliate, si conobbe, benché fossero alquanto dalla vecchiezza consumate, esservi riposti i Santissimi corpi de gloriosi Apostoli Iacopo e Filippo: il che subito, che si seppe nella città, e nei luoghi circonvicini, corse là una infinita moltitudine di persone a visitare quei Santissimi corpi, delle quali molte, che da diverse incurabili infirmità erano oppresse, essendovi devotamente a quei santi avotate, furono miracolosamente liberate”. Il Maestro Marzagaia, contemporaneo dei fatti e che viveva a Verona, scrive: «Filippo da Lavagno il 10 maggio fu degno di essere risvegliato da una voce divina che lo invita a scavare sulla cima della collina per mettere alla luce le reliquie di S. Giacomo. Scavò e le trovò». Lo storico Bagata non cita la visione divina, ma afferma che Filippo: «S. Jacobi Maioris Apostoli corpus sive ossa … in Monte Grigiano … inventa… per Philippum rusticum Lavanei… dum foderet cum aliis rusticus in turris Ecclesie … in arca marmorea». Ci fornisce così un elemento preciso: la torre della chiesa, nel sepolcro marmoreo. A conclusione citiamo anche Simeoni: «Verso 1395 un muratore, di nome Filippo, dice che San Giacomo Maggiore gli apparve in sogno, indicandogli dove giacevano le sue ossa e là fu scoperta una cassa con delle ossa…». Le note storiche del manoscritto della Cronaca Parisiana ed un Anonimo del XVI secolo ricordano la visita del Vescovo di Chioggia che, miracolato, celebrò una messa di ringraziamento in cui “si ritrovò la signora Contessa (Antonia) figliola del signor Bernabò Visconte, giunta a Verona con alquante gentildonne Milanesi, per visitare anche essa questi Santissimi corpi, desiderosa d’impetrare per mezo loro gratia da una divina Maestà di essere liberata d’una incurabile infermità, che avea”. Il 30 giugno si recò a visitare le reliquie di San Giacomo sul Grigliano ed il 2 luglio (l’Anonimo scrive il 21) partì per la Germania portando con sé un dito del Santo che aveva derubato dall’urna. Il secondo fatto concerne il testamento di Anna, vedova di Ser Falconeto di S. Polo di Lavagno, che il 21 agosto 1395, in punto di morte, dispose che il suo corpo fosse sepolto nel cimitero di san Briccio (vicino a Grigliano) e decise di donare alla chiesa di S. Giacomo un pezzo di terra nel territorio di Lavagno. Infine, sull’urna c’é una data: «M. CCC. XC. V.» e nel testo sull’ara si legge l’iscrizione: «CAPSA  CVM  OSSIBVS  S.  JACOBI APOSTOLI QVAE SVB VETERIS TEMPLI EST DEFOSSA AN  MCCCXCV   OSSA IN ARA MAXIMA  COLLOCATA ». La notizia del ritrovamento suscita entusiasmo e fanatismo, i pellegrinaggi cominciano e con loro le donazioni e le richieste di miracoli non tardano. Già nel secondo semestre del 1395 il comune si assume il patronato del Monte Grigliano e delle reliquie e fa costruire una cappella con i proventi delle elemosine. Intanto Filippo di Lavagno, scopritore e custode delle reliquie, dei tesori e delle ricche offerte, “giudicando, che se havesse portato quei corpi in altri paesi, ne havrebbe cavato grande utile, deliberò di rubarli, e d’andarsi con Dio con quelli”. Per tale proposito Filippo si confida con tale Garello, proponendogli il piano e la divisione del bottino, ma Garello, narra il Moscardo, “benché contadino fosse, dell’onor suo, non solo non acconsentì a quanto era stato da Filippo richiesto, ma ancora il riprese agramente, e con molte parole si sforzò di rimoverlo da quel suo scelerato pensiero…”. Allora Filippo cercò un altro compagno ed insieme, decisi nel piano sacrilego, ammazzarono Garello e poi di nascosto lo seppellirono. La notte successiva (10 dicembre 1396) i due furfanti tolsero “i beatissimi corpi dalla sepoltura, e postigli in alcuni panni lini, cha a quelli erano stati offerti, e tolte insieme tutte quelle più ricche, e pretiose cose, che poterono portare, vennero alla porta per uscir fuora, quando si levò così brutto, e spaventoso tempo di venti, tuoni, saette, e pioggia mescolata con tempesta, che non fu mai possibile, che potessero uscire, e tante volte quante s’apprestarono alla porta per uscire altre tante dalla furia dei venti furono risospinti adietro”. I rumori dei venti e dei tuoni svegliarono gli altri guardiani, che si rifugiarono spaventati in chiesa per pregare e, trovando i ladri con le mani nel sacco, si fecero restituire le spoglie dei santi e le preziose reliquie, lasciandoli andare “senza fargli nocumento alcuno”. Dopo diversi mesi Filippo fu arrestato per altre malefatte, assieme a due compagni, e diversi delitti, compreso quello di Garello. Infine, fu “insieme co’ compagni strascinato a coda di cavallo il duodicesimo giorno di giugno dell’anno che seguì (1397) fino a Tomba, e quivi impiccato”. Agli inizi del 1396, visto il successo della cosa, il comune di Verona scrive al papa Bonifacio IX una relazione sui fatti e sui miracoli, chiedendo la costruzione di un santuario. Il Papa risponde in modo favorevole il 9 aprile 1397 con la bulla «Jus Patronati» e nel 1407 il santuario era quasi finito, con un convento a lato. L’8 maggio 1413 il consiglio comunale decide di affidare la chiesa ed il convento ai Benedettini di S. Giustina di Padova. Ma poco dopo, il Pontefice Gregorio XII pose delle riserve sulla autenticità delle spoglie dei santi e sui miracoli avvenuti, contribuendo quindi a far diminuire l’entusiasmo, il fervore religioso e le donazioni in denaro, fino alla chiusura del cantiere. I lavori continuarono solo grazie ai ricavi dei Benedettini e poi degli Olivetani. La parte costruita viene tamponata e chiusa proprio come appare oggi.  Durante la pestilenza del 1630 il santo fece un miracolo, facendo cessare l’epidemia. Nel 1771 i monaci abbandonano i luoghi ed il comune di Verona nel 1781 vende tutto a dei privati che li danno in affitto alla Congregazione dell’Oratorio dei Filippini. Nel 1801 e 1805 le truppe francesi occupano il luogo e danneggiano l’altare disperdendo le ossa, che un prete locale raccoglie di nascosto e conserva. Nel 1816 la proprietà va a dei privati che chiedono al vescovo di poter avere le reliquie e di custodirle in una cassa di ferro nell’altare. Per finire, nel 1883, il vescovo di Compostella pose la questione della veridicità delle reliquie di Verona, dato che i veri resti del santo erano già in Galizia. Il papa Leone XIII nel 1884 risponde con gli «Acta Apostolice Sedis», minacciando di scomunica coloro che non riconoscano che il corpo di San Giacomo si trova in Spagna a Compostella. Attualmente in questi luoghi, chiamati «Oasi di S. Giacomo», ci sono dei ritiri spirituali e di studio della congregazione dell’Opera di D. Calabria.

10) Monselice (Padova- Regione Veneto)

Le origini della comunità francescana nella città di Monselice: La chiesa e il convento di San Giacomo rappresentano uno dei più antichi e importanti centri religiosi di Monselice. La fondazione del complesso monastico risale al 1162, quando su iniziativa di un canonico di Ferrara venne istituito appena fuori la cinta muraria della città un luogo adibito ad ospizio. La struttura aveva inizialmente la funzione di accogliere i bisognosi e i pellegrini, ma ben presto accanto all’ospizio si sviluppò anche un monastero doppio (maschile e femminile), che agli inizi del Duecento aderì alla nuova congregazione benedettina degli “Albi”, fondata dal padovano Giordano Forzatè. Nel corso del XIV secolo il convento di San Giacomo attraversò un periodo di grave decadenza: le monache, che in quegli anni formavano il nucleo prevalente della comunità, furono accusate di “iniqua condotta” e nel 1420 il vescovo di Padova decise di allontanarle e di affidare il monastero ai canonici di San Giorgio in Alga (Venezia). Sotto la loro gestione, il cenobio monselicense recuperò la rispettabilità e l’efficienza; i canonici regolari rimasero a Monselice per quasi due secoli e mezzo, fino alla soppressione dell’ordine avvenuta nel 1668. A partire dal 1677 il convento passò ai frati minori francescani riformati, grazie all’interessamento del vescovo Gregorio Barbarigo. Durante il periodo napoleonico il complesso religioso fu confiscato e in seguito utilizzato come caserma dell’esercito italiano. Dopo varie peripezie alla fine dell’800 i frati minori di San Francesco ne sono ritornati in possesso e sono tuttora i reggenti della chiesa che è diventata parrocchiale nel 1966. Gli edifici nel corso dei secoli hanno subito varie modifiche e rifacimenti e del monastero medievale rimangono poche tracce. All’interno della chiesa di San Giacomo, edificio consacrato nel 1332, si custodisce una reliquia attribuita al santo: oggi si trova esposta all’interno di un prezioso reliquario d’argento forgiato nel XVII secolo. Alcune opere d’arte appartenute al monastero si ammirano nella unica navata della chiesa: due grandi tele seicentesche dipinte dal pittore fiammingo Michele Desubleo (“La chiamata di San Giacomo apostolo” e la “Trasfigurazione”), un’opera di Palma il Giovane (“Crocifisso tra la Vergine, Maria Maddalena e San Giovanni”), un dipinto cinquecentesco di Dario Varotari raffigurante San Giacomo e uno di G.B. Maganza con la Sacra Famiglia. Attualmente il convento ospita un museo Missionario e una importante biblioteca storica che contiene circa 15.000 volumi. Inoltre, i frati francescani hanno recentemente ripristinato l’antica funzione di accoglienza del luogo, allestendo all’interno del monastero un piccolo ostello a disposizione dei pellegrini e di chi desidera trascorrere un breve periodo di ritiro spirituale.

11) Castiglion dei Pepoli (Bologna- Regione Emilia Romagna)

Nei pressi del passo della Futa, località San Giacomo, frazione del Comune di Castiglion de’ Pepoli (BO), in cima a una ripida salita sul crinale della sponda destra del Rio Bagnolo o Calvane, sorge la piccola chiesa di San Giacomo alle Calvane, che nasce come oratorio e di cui si hanno notizie già nel 1573. Preceduta da un ampio spazio erboso e immersa nel verde di un bosco bellissimo, la chiesa si presenta con caratteristiche secentesche. Sulla facciata una fascia in sasso d’arenaria reca un’iscrizione che indica la dedicazione all’apostolo San Giacomo e l’anno 1629, anno in cui fu eseguito un importante intervento di ristrutturazione.  Sul muro orientale della Chiesa si staglia un campaniletto a vela in cotto con due campane. La base della croce in ferro che sovrasta la facciata è a forma di conchiglia. All’interno della chiesa, nell’abside, una nicchia incorniciata racchiude una piccola statua in legno policromo del 1600, raffigurante San Giacomo con mantellina e conchiglia, bordone col gancio per la fiasca nella mano destra e il libro nella sinistra. Pare che la statua provenga dal vicino Santuario di Boccadirio. Sull’altare è esposta una teca contenente una reliquia di San Giacomo. La chiesa è visitabile nel periodo estivo grazie alla generosità di una coppia bolognese che da alcuni anni sta dedicando il proprio tempo e le proprie energie al recupero e alla cura di questo suggestivo luogo di culto e di pace.

12) Bologna (Regione Emilia-Romagna)

Una chiesa e un convento dedicati a san Giacomo fecero la loro comparsa in Bologna nel 1247, quando il vescovo di Bologna concesse ad alcuni frati che diverranno in breve gli Agostiniani, un terreno appena fuori dalle mura. Già dal 1247 la comunità di eremiti del beato Giovanni Bono da Mantova, detti Giamboniti, si era stabilita a ridosso delle mura di Bologna lungo il corso del fiume Savena e poi entrarono nel nuovo grande organismo “Ordine Eremitano di Sant’Agostino”, voluto nel 1256 da papa Alessandro IV, il cui primo generale fu Lanfranco Settala da Milano, giambonita proveniente dalla comunità bolognese. Gli eremiti del Savena cercarono presto un luogo più adatto nell’interno della città che agevolasse la loro opera di apostolato ed evitasse i disagi di un luogo malsano: così il 25 aprile 1267 fu posta la prima pietra della nuova fabbrica sulla strada San Donato, in un luogo adiacente alla chiesetta parrocchiale di Santa Cecilia. I lavori proseguirono lentamente: l’edificio fu terminato nel 1315, ma la sua consacrazione avvenne nel 1344, dopo la costruzione della parte absidale (1331-1343). Di impostazione romanica, ispirata alla semplicità e alla povertà degli Ordini mendicanti, la chiesa dimostrava una concezione dello spazio già di ispirazione gotica (slancio verticale, finestre ogivali, arche funerarie). Al suo interno si trova la cappella Bentivoglio, splendida architettura di metà Quattrocento, ricca di opere d’arte rinascimentali. Nella basilica si trovava una delle poche immagini di san Giacomo cavaliere e Matamoros databili tra il XII e il XIV sec., e per antichità e peculiarità iconografiche, è rara nel panorama delle immagini jacobee, ciò che dà al culto di san Giacomo in Bologna una qualità particolare.

HOC AUGUSTINO TEMPLUM DIVOQ(UE) IACOBO
FELSINEI POSUERE VIRI IUSTUSQ(UE) SENATUS

“I Bolognesi ed il legittimo Senato eressero questa chiesa dedicata ai Santi Agostino e Giacomo”. Furono quindi edificati un convento e una chiesa, dedicata a san Giacomo Maggiore, posti tra l’attuale porta Zamboni, allora uscita dalle mura di Strata Sancti Donati, e porta San Vitale, allora sbocco della Strata Sancti Vitalis: essendo la chiesa dedicata, oltre che a sant’Agostino, a san Giacomo, vennero detti anche Frati di San Giacomo. Nell’Europa percorsa incessantemente da pellegrini, il culto di san Giacomo, avvocato protettore affidabilissimo e prediletto dai pellegrini, si era andato diffondendo, come pure il pellegrinaggio alla sua tomba a Santiago de Compostela. Bologna si trova proprio là dove si intersecavano la Via Germanica indicata dagli Annales Stadenses e la Francigena allora meglio servita. Il traffico dei pellegrini si spostò dalla strada di Monte Bardone e dal valico della Cisa a quello delle valli (e dei crinali) del Reno, del Setta, del Savena, dell’Idice, e anche del Sillaro e del Santerno, per cui i pellegrini furono attratti nell’area di Bologna, dove trovavano la memoria di san Giacomo nonché la Sancta Jerusalem Bononiensis, che fin dal IX secolo era sostitutiva del pellegrinaggio a Gerusalemme e figura della Gerusalemme celeste. La teca che conserva una reliquia di san Giacomo, identificabile per la statuetta superiore, può appartenere al patrimonio della chiesa Agostiniana. Anche questa quasi certamente un’opera rimaneggiata. La statuetta è probabilmente il pezzo rimasto di un reliquiario più antico, poi riproposto su questo oggetto che pur imitando i modelli del XVII secolo, appare più tardivo, come documentano le lamine laterali intagliate e l’incorniciatura della teca. Elementi imitativi, ma appartenenti, quasi certamente, al XIX secolo. La soprastante scultura appare piuttosto degradata a causa di ossidazioni della lamina e errate puliture che hanno favorito la sedimentazione di corpi estranei.

13) MILANO- Chiesa dei Santi Giacomo e Giovanni- Regione Lombardia

Nella città di Milano, l’unica chiesa dedicata all’Apostolo Giacomo il Maggiore si trova in via Meda 50. È la chiesa dei Santi Giacomo e Giovanni, di stile moderno, realizzata tra il 1999 e il 2001 e consacrata dall’arcivescovo Dionigi Tettamanzi il 28 gennaio 2006. Qui troviamo diverse raffigurazioni dell’Apostolo, che aiutano a scoprire e ad approfondire la figura di questo grande santo. Innanzitutto compare nel mosaico di Rupnik in fondo al presbiterio. Giacomo è il personaggio a destra, sopra la sede, spettatore dell’evento della trasfigurazione di Gesù insieme al fratello Giovanni (in piedi a sinistra) e a Simon Pietro (seduto a sinistra). È rappresentato con i tratti del profeta Elia: un uomo forte e vigoroso, ardente di zelo per il suo Signore; un uomo travolto e trasportato dal fuoco dello Spirito Santo; un uomo che, alla presenza di Dio, si copre il volto con il mantello. Sulla porta d’ingresso, nella formella più a destra, che rappresenta la Pentecoste, san Giacomo si distingue dagli altri apostoli per i tratti distintivi del pellegrino: il bastone, la conchiglia e la zucca usata come borraccia. Infine, entrando in chiesa sulla sinistra, si trova un’insolita icona dei santi Giacomo (a sinistra) e Giovanni (a destra), ritratti uno di fronte all’altro.

LA RELIQUIA: Forse non tutti sanno che la Chiesa dei santi Giacomo e Giovanni custodisce dentro l’altare una preziosa reliquia dell’apostolo Giacomo proveniente direttamente da Santiago de Compostela e donata nel 1998 dall’arcivescovo Julian Barrio Barrio. È un reliquiario di granito rosso contenente: a) un pezzo di stoffa di seta granata del XV secolo che ha toccato la statua di Santiago; b) un pezzo di legno dell’arca provvisoria, che conteneva le spoglie dell’apostolo dal 1879 al 1891; c) un pezzo di gallone d’oro della stessa arca. L’”Autentica” datata 25 luglio 1998 dice: “Con la presente concediamo volentieri la nostra autorizzazione alla donazione dei “brandea” di cui sopra, che, a norma di legge, dichiariamo autentici, con l’augurio che siano per la nuova parrocchia pegno della preziosa intercessione del nostro santo patrono, il glorioso apostolo San Giacomo il Maggiore, e per tutti i fedeli di questa nuova comunità parrocchiale siano sprone della devozione e della partecipazione al suo zelo apostolico.”

14) Pavia- Duomo (Regione Lombardia)

NOTA STORICA (Archivio Storico Diocesano di Pavia- IX- Santi Pavesi, cart. 44) : “Nel 1885 Noi abbiamo giudicato opportuno di mutare la forma al suddetto reliquiario, cioè, conservandosi la base, mutare la parte superiore, e sostituire alla forma di un braccio quella di un’urna a cristalli di vetro, sostenuta da quattro figure”: così scriveva il vescovo di Pavia, Agostino Riboldi, in una nota informativa inviata su richiesta del cardinale arcivescovo di Santiago di Compostella, Maria Martin de Herrera y de la Iglesia (1835-1922).  In quegli anni l’Archidiocesi compostellana aveva provveduto ad una meticolosa ricognizione delle reliquie dell’Apostolo san Giacomo, detto il Maggiore, “riscoperte in quegli anni”. Come giunsero fino a noi le reliquie del Santo? In Oriente come in Occidente era consuetudine che parti dei corpi santi venissero prelevate dai sepolcri ed inviate come segni di comunione, amicizia, o come ringraziamento, a persone ed istituzioni importanti. La reliquia del braccio dell’apostolo Santiago era giunta dalla Spagna nel XIV secolo ad opera del Cardinale Guglielmo de Longis de Adraria per essere custodita nell’abbazia di Pontida. Nel 1373, però, il duca di Milano, Bernabò Visconti, in seguito all’uccisione del figlio Ambrogio, attaccò Pontida e fece asportare, tra le altre cose, il braccio di san Giacomo che trasferì a Milano. Queste reliquie di san Giacomo furono portate a Pavia il 25 luglio 1398 da Prevedino di Marliano e collocate nella cappella del castello di Pavia. Da qui poi trasportate in cattedrale nel 1499, quando i Francesi minacciavano Pavia, per sottrarre le reliquie dal pericolo della profanazione, del furto o della distruzione. In Cattedrale rimasero, divenendo patrimonio comune della Città. Nel 1952 infine, il radio e l’ulna dell’Apostolo vennero separati e l’ulna riconsegnata a Pontida, da cui proveniva. Nel 1877 il vescovo Riboldi effettuò accurate indagini, sia relative alla comparazione dei resti pavesi con quelli compostellani, come anche alla loro provenienza, che risultava da una famosa e potente abbazia (Pontida), che certamente intratteneva stretti rapporti con il Santuario di Compostella. A ciò si aggiungeva anche la venerazione che la Città intera prestava per la reliquia: nel 1599, con una pubblica sottoscrizione, i pavesi donarono un nuovo reliquiario in argento, in forma di braccio, che fu poi parzialmente modificato, come si dice all’inizio di questo scritto, per facilitare la devozione dei fedeli. Prudentemente, tuttavia, il Vescovo non dichiarò l’autenticità della reliquia in presenza di prove certamente credibili, ma non inoppugnabili (essendo stato distrutto l’archivio dell’Abbazia di Pontida, non era possibile ricostruire con assoluta certezza come la reliquia vi fosse giunta). Dopo aver attentamente studiato la documentazione relativa prodotta dal Vescovo di Pavia, in una sua lettera del 8 di ottobre 1901, il Cardinale Herrera volle comunque dichiarare che “non vi erano ostacoli al riconoscimento dell’autenticità della reliquia” e che, in considerazione degli stretti rapporti esistenti sin dal XI secolo tra il Santuario di Compostella e l’Italia settentrionale (in particolare con Pontida e la famiglia Visconti), attestati dalla documentazione archivistica esistente a Santiago, egli riteneva di poter approvare il culto pubblico prestato dalla Diocesi di Pavia alla nostra reliquia, attestandone quindi, seppure in maniera indiretta, l’autenticità.

15) PONTIDA (Bergamo- Regione Lombardia)

Monastero di San Giacomo e l’Ordine di Cluny in Lombardia: Il grandioso complesso dell’Abbazia di Pontida svetta su tutto il territorio per le sue dimensioni e si nota in lontananza dall’alto campanile, coronato dalla statua di San Giacomo. Conosciuto come Monastero di San Giacomo il Maggiore, è stato fin dal Medioevo il centro della vita economica e culturale dell’intera regione, uno dei più importanti siti cluniacensi. Fondato da Alberto da Prezzate nel 1076, richiamandosi alla Regola di San Benedetto, offre ospitalità, cultura e spiritualità. Le cappelle conservano pregevoli altari marmorei di epoca barocca. Nel presbiterio, l’altare maggiore, edificato in anni recenti, contiene due lastre lapidee con intagli databili tra la fine dell’XI secolo e i primi anni del XII secolo, appartenenti al primitivo sepolcro di S. Alberto, riconosciuto come uno dei i più antichi esempi di scultura romanica in Lombardia. Il chiostro superiore fu edificato intorno al XVI secolo e conserva gli affreschi di ventisei papi dell’ordine benedettino. Dall’ingresso del monastero si accede al chiostro inferiore, decorato con fregi in terracotta, in parte del XVI secolo e in parte del XVIII secolo, con frammenti architettonici dei secoli IX-XI. L’origine del Monastero di Pontida risale all’XI secolo, periodo fondamentale nella storia non solo della Chiesa, ma di tutta la civiltà europea. Questo è il tempo del grande conflitto tra il Papato e l’Impero, che porta il nome di “lotta per le investiture”. Da lì la Chiesa, sotto l’energico impulso di papa Gregorio VII, ne uscirà purificata e rinnovata, ma soprattutto liberata dalle ingerenze dei signori laici nei due secoli precedenti. A sua volta l’impero, uscendo vinto e ridotto dalla lunga lotta, cesserà di essere quel potere assoluto e sacro che era stato sinora; ciò consentirà lo sviluppo dei moderni stati-nazione, l’emergere dell’autonomia municipale, soprattutto nell’Italia settentrionale, e una distinzione sempre più netta tra sfera religiosa e sfera politica. In questo movimento di riforma ecclesiastica e civile, un ruolo fondamentale fu svolto dal monachesimo benedettino, nelle sue varie forme, ma in modo del tutto particolare dai monaci cluniacensi, così chiamati per la famosa abbazia di Cluny, in Borgogna, fondata nel 909. Il monachesimo cluniacense si distinse tra tutti i movimenti monastici per la sua scrupolosa fedeltà alla regola di San Benedetto, per il maestoso decoro delle liturgie e per la sua fedeltà al papa, dalla cui autorità dipendeva direttamente. Tra i nobili che fecero donazioni all’Abbazia di Cluny, secondo una tradizione allora diffusa nell’aristocrazia longobarda, vi fu anche Alberto da Prezzate, che l’8 novembre 1076 donò tutti i suoi possedimenti, ubicati tra l’Adda e il Brembo, nel Valle Pontida. Tra questi vi era anche una chiesetta, situata alle pendici del Canto Basso e dedicata a Santa Maria e San Giacomo, accanto alla quale, per volontà del donatore, i monaci cluniacensi costruirono un monastero e un ospizio per i pellegrini. Successivamente andò in pellegrinaggio a Compostella, conoscendo i monasteri cluniacensi del Cammino e decise di recarsi a a Cluny, dove prese l’abito monastico; infine tornò a Pontida, incaricato dall’abate Sant’Ugo di essere il priore del monastero ed il vicario dell’abate di Cluny per tutta la Lombardia. Il 6 aprile 1095, poco prima della sua morte, Alberto ebbe la soddisfazione di vedere consacrata, da un vescovo fedele a papa Urbano II, la chiesa romanica edificata al posto della chiesetta originaria. Alberto morì a Pontida il 2 settembre 1095 con fama di santo: ne è testimonianza la tomba che subito gli fu costruita e di cui restano ancora due frammenti, che sono tra i più antichi resti della scultura romanica in Lombardia. Uno di essi rappresenta San Michele, patrono dei Longobardi, che pesa le anime in veste di cavaliere. Il secondo frammento rappresenta San Michele Arcangelo che presenta a Cristo Giudice l’anima del Priore Alberto, il quale a sua volta, dall’altra parte della scultura, appare in abito monastico, mentre presenta a Cristo il monastero da lui fondato. Lo accompagnano i suoi grandi protettori: l’apostolo San Giacomo e l’abate San Benedetto. Tutti i critici d’arte che hanno esaminato i resti della tomba di S. Alberto, anche se discordano nelle loro conclusioni, concordano nel datare l’opera al 1095 o subito dopo, e “così acquistano grandissima importanza, come i più antichi esempi di scultura realmente seria in Lombardia”. Della stessa epoca i portali e le porte gemelle, di cui una si apre in sacrestia e l’altra chiude il reliquiario dei santi, tra cui il braccio di San Giacomo Apostolo Maggiore.  La reliquia del braccio dell’apostolo Santiago era giunta dalla Spagna nel XIV secolo ad opera del Cardinale Guglielmo de Longis de Adraria per essere custodita nell’abbazia di Pontida. Nel 1373, però, il duca di Milano, Bernabò Visconti, in seguito all’uccisione del figlio Ambrogio, attaccò Pontida e fece asportare, tra le altre cose, il braccio di san Giacomo che trasferì a Milano. Queste reliquie di san Giacomo furono portate a Pavia il 25 luglio 1398 da Prevedino di Marliano e collocate nella cappella del castello di Pavia. Da qui poi trasportate in cattedrale nel 1499, quando i Francesi minacciavano Pavia, per sottrarre le reliquie dal pericolo della profanazione, del furto o della distruzione. In Cattedrale rimasero, divenendo patrimonio comune di Pavia, fino al 1952 quando, infine, il radio e l’ulna dell’Apostolo vennero separati e l’ulna riconsegnata a Pontida, da cui proveniva. Nel 1158 il priore di Pontida, Alberto II, servì da pacificatore tra il comune di Milano e il comune di Lodi. La tradizione vuole che il 7 aprile 1167 i rappresentanti dei comuni lombardi, stanchi delle prepotenze di Federico Barbarossa, imperatore scomunicato da papa Alessandro III, misero da parte le loro vecchie discordie e si incontrassero al monastero di Pontida giurando un patto di mutuo soccorso, che divenne famoso come il Giuramento di Pontida. Le circostanze precise di questo evento non sono note, perché la leggenda se ne è impossessata. Il monastero di Pontida, purtroppo, subì anche la violenza delle lotte interne che travagliarono l’Italia alla fine del Medioevo. Si trovò così in mezzo alle guerre tra milanesi e bergamasche, (i primi ghibellini di Bernabò Visconti, vicario imperiale dell’Italia settentrionale, i secondi piuttosto guelfi, cioè fedeli al papa). Quando gli abitanti della valle di San Martino, colpevoli di aver ucciso il figlio di Bernabò Visconti, Ambrogiolo, si barricarono nel monastero per tentare un’ultima disperata resistenza contro la spedizione punitiva, il monastero ne pagò il prezzo (settembre 18, 1373) e fu messo a ferro e fuoco dall’esercito dei Visconti, che danneggiò la potente basilica gotica, edificata all’inizio del XIV secolo. I pochi monaci superstiti si rifugiarono a Bergamo, portando con sé le reliquie di Sant’Alberto. L’odierna basilica gotica di Pontida non conserva nella sua struttura architettonica alcun ricordo della antica chiesa cluniacense, tuttavia presenta nel suo interno il ricordo più venerando della primitiva chiesa: i frammenti scultorei del sarcofago di Sant’Alberto, suo fondatore. Sotto nella fascia al centro con la Madre di Dio, ai lati inginocchiati i committenti, e poi i dodici apostoli con vari simboli distintivi. Ciascun apostolo ha un cartiglio, sul quale è scritto un articolo del Credo. Il moderno “Pantocrator” di Pontida è indicato con le sigle bizantine del nome di Gesù Cristo IC. XC. L’altar maggiore in marmo nero con intarsi policromi fu eseguito nel 1707. Originariamente sotto la mensa c’era un sarcofago di marmo nero, tolto nel 1911, per far posto all’urna d’argento con le reliquie dei santi Alberto e Vito, fondatori del monastero e il reliquiario dei santi, tra cui l’ulna del braccio di S. Giacomo.  Bernabò Visconti custodiva numerose reliquie di santi, prelevate dalla chiesa di Pontida, e trasferite nella cappella del castello visconteo di Pavia (NdR: vedi l’articolo su Pavia), e tre carrelli di libri del monastero: un eccezionale patrimonio culturale per il tempo. Già pochi anni dopo la fondazione del monastero, lo stesso sant’Alberto aveva inviato da Cluny, dove stava completando la sua formazione monastica, un codice liturgico, forse scritto di suo pugno (ma più probabilmente da lui acquisito) e dedicato ai confratelli di Pontida con epigrafe in versi latini. Questo codice, destinato più alla sacrestia che alla biblioteca, finì poi, in seguito alla dispersione del 1373, nel priorato cluniacense di S. Nicolò di Figina a Villa Vergano (Como), non lontano da Pontida, e da lì al Biblioteca Ambrosiana di Milano, dove è ancora oggi conosciuta come Lezionario Figina. Un altro codice liturgico, oggi conservato presso la Biblioteca Vaticana, era destinato anche alla sacrestia, ma appartenente alla biblioteca di Pontida, come testimonia la nota di proprietà del XIV secolo (Iste liber est monasterii sancti Jacobi di Pontida): si tratta del manoscritto Iva Lat 82, detto anche Salterio di Pontida. Si tratta di un salterio ambrosiano del IX secolo e di notevole importanza per la storia della liturgia milanese. La presenza di testi liturgici di origine milanese nell’antica biblioteca di Pontida si spiega con gli scambi culturali tra Milano e Pontida nella prima metà del XII secolo. Infatti, è nota una lettera indirizzata dai monaci di Pontida al prevosto del presbiterio di S. Ambrogio in Milano, Martino Corbo, per chiedergli di prendere in prestito il testo del commento di sant’Ambrogio al Vangelo secondo Luca, al fine di trascrivere. A Pontida funzionava così uno scriptorium, grazie al quale i monaci ampliarono la loro biblioteca. È anche logico far risalire la venuta da Milano a Pontida di un altro codice vaticano, questa volta di carattere canonico, cioè il più antico manoscritto della Collectio Canonum di Sant’Anselmo da Lucca, arrivato forse grazie a Landolfo da Baggio, nipote del santo e prevosto del presbiterio di S. Ambrogio, prima di Martino Corbo. L’evento fatale del 1373, oltre a determinare la fine della primitiva biblioteca di Pontida, segna anche l’inizio del declino del più prospero priorato della Lombardia cluniacense. Dopo la distruzione di Bernabò Visconti, il monastero fu in agonia per più di un secolo. Con l’approvazione della Serenissima Repubblica di San Marco, che aveva esteso il proprio dominio al fiume Adda, il Priorato cluniacense di Pontida, ormai ridotto a zero, fu inglobato da Innocenzo VIII nella Congregazione di Santa Giustina da Padova (1491), così sciogliendo il vecchio legame con Cluny. Gli edifici, ridotti ad un cumulo di macerie, furono ricostruiti all’inizio del Cinquecento e il monastero assunse l’aspetto rinascimentale odierno, soprattutto nei due bei chiostri. Situata al confine tra la Repubblica di Venezia e lo Stato di Milano, Pontida rimase un piccolo monastero provinciale, tagliato fuori dalle principali correnti culturali. Solo nel 1700 venne istituita una biblioteca degna di un monastero benedettino, per la presenza a capo della piccola comunità di abati rinomati per la loro cultura e membri a pieno titolo di quella che fu poi chiamata Repubblica di Lettere. Il 14 gennaio 1910, da Roma, tre monaci della congregazione benedettina-cassinese furono inviati a Pontida per far rivivere l’antico ideale del servizio divino nella preghiera e nel lavoro. Monastero di S. Giacomo, Piazza Giuramento 155- Pontida (BG) tel. 035 795 025 centralino 035 43 85 427 Email: comunita@monasterosangiacomo.it

Ricerche e raccolta di testi vari a cura di Flavio Vandoni. www.camminando.eu

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