LA POESIA DEL CAMMINARE
La mia bohème (Rimbaud 1870)
Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
ed anche il mio cappotto diventava fittizio;
Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo seguace;
Oh! quanti amori splendidi ho sognato!
I miei unici pantaloni avevano un largo squarcio.
Pollicino sognatore, nella mia scorribanda sgranavo
rime. Il mio giaciglio era sotto l’Orsa Maggiore,
nel cielo dolcemente frusciavano le mie stelle
Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade
in quelle belle sere di settembre in cui sentivo gocce
di rugiada sulla fronte, come vino corposo;
dove, facendo rime in mezzo a fantastiche ombre,
tendevo, come fossero corde musicali, le stringhe
delle mie scarpe ferite, un piede vicino al cuore!
Questo sonetto è l’evocazione del desiderio di avventura, di un vagabondare fisico e mentale. Rimbaud si presenta come un vagabondo senza soldi, senza vestiti decenti e senza alloggio, ma che non soffre di questa situazione. Anzi, appare spensierato e libero di perdersi e fondersi nella natura, senza problemi, per rinvigorire l’anima, un poeta errante che viaggia, come Pollicino alla ricerca di orizzonti, di una via, un cammino, una strada, non necessariamente lineare, da percorrere proprio come uno zingaro in contrasto con l’agiatezza ed il tran tran del borghese.
Nel corso di questo cammino emozionale e razionale ci si “inebria” di vita e di parole, si fa’ poesia, perché questa è indissolubile dal camminare.
Piccoli esseri, sottoposti al clima ed al bisogno, usurati nei piedi e negli abiti, diventano padroni del cielo stellato e delle sensazioni acuite, in allegria.
La poesia e l’andare offrono la possibilità di evadere da una realtà costrittiva e da un universo troppo conformista. Le stringhe delle scarpe diventano corde della lira per la musica del cammino.
C’è un’analogia sui cammini tra il vagabondare di Rimbaud, la sua “bohème”, e l’ “ebbrezza” di Baudelaire, che non è uno stato di incoscienza, ma di ipercoscienza, cioè una condizione di grazia mentale che si acquisisce con le endorfine prodotte dal lungo camminare, che non fa perdere il controllo della realtà, ma al contrario permette di cogliere le emozioni, la bellezza, la vita in una dimensione sublimata.
“Enivrement”, “ebbrezza”, “ma bohème”: simboli della ricerca di un senso da dare alla vita, grazie alle conoscenze e alle esperienze maturate in questo cammino, in questo andare.
L’esistenza è un continuo divenire che ognuno arricchisce con le proprie peculiarità.
Rimbaud, come tutti noi, idealizza questo periodo d’erranza, la trasfigura per conservarne solo gli aspetti piacevoli. La scrittura trasforma l’esperienza, gli da’ un’intensità superiore come periodo di vita straordinario.
CAMPOS DE CASTILLA di Antonio Machado
“Caminante no hay camino, al andar se hace camino..
“camminante, sono le tue orme il cammino e niente più ;
camminante non c’é il cammino,
si fa il cammino andando, andando si fa il cammino
e guardandoti indietro, si vede la pista che mai tornerai a calpestare,
camminante, non c’é cammino, ma solo solchi nel mare.” dice Antonio Machado.
Semplici parole che racchiudono una verità profonda.
E’ camminante, è in cammino chiunque lasci la sua casa, la sua vita “normale” per diventare viandante, senza domicilio fisso, che vada verso una meta o no, che segua vie tracciate o no, che disponga di fondi o no.
Potrà fare delle esperienze fuori dal quotidiano ed imparare un modo differente di vivere, di viaggiare. Lascerà per terra solo le sue orme, accetterà le incognite, gli imprevisti, gli sguardi curiosi o di disprezzo degli altri, penerà, suderà, sarà accolto o scacciato, aiutato o beffato, ma sarà il suo cammino.
Camminando, biciclettando o cavalcando, da soli o in compagnia, con zaino, carrello o somarello, visitando, scoprendo, imparando e conoscendo, dialogando o in silenzio, condividendo o stando in disparte… con segni esteriori di fede per chi lo fa come pellegrinaggio o nell’intimità delle sue credenze, a ciascuno il suo cammino. Dal cammino sgorgano molte cose e tra queste affiora l’allegria ed il canto. Per momenti, la presenza della natura ti fa percepire una cosa così evidente: tu fai parte della vita. Una cosa così semplice e nello stesso tempo così profonda.
Ed allora si può cantare, sorridere, essere felici, aprirsi…
Sgorgano vecchi pesi, rimorsi, fallimenti e sconfitte, le lacrime e i pianti, perché il passato così presente trova delle fessure per uscire e poter essere risolto, infine, forse…
Nella misura in cui le cose represse o negate risorgono, si può lasciare che il vento le porti via e le cancelli senza riserve… E le cose ci sembrano, ora, davvero così piccole, così meschine, così ridicole. Ma sgorgano anche le nostre speranze, le nostre illusioni ed i nostri desideri.
David Le BRETON – Éloge de la marche
Da una parte c’é la «modernità». Gli inghorghi stradali e l’automobile “tragica”. Gli schermi dei computers ed i cd-rom che propongono escursioni virtuali. L’uomo frettoloso.
Dall’altra c’è l’andare a spasso, «che le nostre società non tollerano come non tollerano il silenzio», la marcia, il viaggiare. Ed i nostri piedi. «Non ci sono radici per i nostri piedi, sono fatti per muoversi.» Tra le due cose, DLB ha scelto «la marcia che consente il piacere al ventre», attraverso racconti e ricordi di cammini, e raccoglie degli autori, dei viaggiatori, con cui «si tratta di camminare insieme e di scambiare impressioni come se fossimo a tavola insieme in un albergue, la sera, quando la fatica ed il vino sciolgono le lingue.»
Le prime linee : «La marcia é apertura al mondo. Rimette l’uomo nel sentire felice della sua esistenza. Ti immerge in una forma attiva di meditazioni che sollecitano una sensorialità piena. Ne torniamo talvolta cambiati, più inclini a godere del tempo che a sottomettersi all’urgenza che prevale nelle nostre esistenze contemporanee.» (Éditions Métaillé, 2000)
Dieci anni dopo l’ Eloge de la marche, David le Breton ritorna su questi temi in “Marcher, Eloge des chemins et de la lenteur “(2012).
Se evoca anche la difficoltà dei lunghi cammini e le loro ferite, le pagine di questo libro parlano del piacere del camminare, attività scelta, elogiando l’andare a spasso. Le Breton insiste : il camminare non è orientato verso un obiettivo né una ricerca di performance… è improduttivo, « inutile come tutte le attività essenziali » (pag.31). Privilegiando la lentezza, è “un atto di resistenza » agli imperativi di velocità e di efficacia del nostro quotidiano.
Il camminante riacquista il suo tempo e rinnova il suo ritmo interiore, quello del ritorno a sé o del filo dei ricordi, quello della disponibilità a quello che lo circonda. L’importante non è il fine da raggiungere, ma il cammino percorso. Allo stesso modo, non basta mettere un piede davanti all’altro, ma bisogna accordarsi con l’ambiente che ci circonda. Il cammino può anche essere un momento di ristoro. Il pensiero vi trova un nuovo slancio che supera la ruminazione delle cose. Il camminare diventa in questo senso « un modo di ritrovare il proprio centro di gravità dopo essere stati gettati fuori di sé dalle cose della vita » (pag.152).
« Arte dei sensi » (p.51), DLB insiste sul fatto che il camminare non utilizza solo la vista, ma anche le dimensioni olfattive, auditive, tattili, cinetiche ed anche gustative (la pausa caffè o picnic) del camminante. Le Breton evidenzia che il camminare tende a « uno spaesamento delle routine sensoriali » (p.49) poiché viene immerso in un ambiente che scopre o riscopre. La curiosità, l’attenzione e la disponibilità gli permettono di usare tutti i suoi sensi. Il paesaggio non è più un oggetto da contemplare, ma il suo involucro, la sua atmosfera, il suo universo.
Le Breton constata che il camminare ha fatto molti adepti in dieci anni, senza dubbio perché questo « metodo tranquillo di disincanto dello spazio e della durata nell’esistenza » fa uscire il camminante « dai solchi dove si perde talvolta la voglia di vivere. » Chiaro che si tratta di un’attività scelta, volontaria, sennò è piuttosto simbolo di miseria o di dura prova personale. Il camminare implica una salute sufficiente, ma non si limita al solo movimento fisico: « porta a disfarsi del fardello di essere se stessi, rilascia le pressioni che pesano sulle nostre spalle, le tensioni legate alle nostre responsabilità sociali ed individuali. »
Sui cammini ci si libera degli « imperativi di velocità, di rendimento, d’efficacia » : non si cammina per « guadagnare del tempo », ma per « perderlo con eleganza » ed affermare tranquillamente «che il tempo ci appartiene ».
David Le Breton solleva « una terribile questione di parità tra uomini e donne », bisognerebbe piuttosto dire della disparità. Se le donne sono meno numerose nei viaggi a piedi, è anche perché sono confrontate all’insicurezza più che gli uomini su certi cammini, in certi quartieri, in certi paesi, come già denunciava Rebecca Solnit in ”L’arte del camminare”.
David Le Breton varia gli angoli d’approccio per descrivere la relazione dei camminanti al mondo e a loro stessi. Lungi dall’idealizzarla, ricorda che « la marcia è una scuola di pazienza, mai di rassegnazione; al contrario ci insegna a non precipitarsi e ad adeguarsi alle circostanze, che siano felici o piene di complicazioni. »
«Il camminante è un artista delle occasioni. »
“Marcher, Eloge des chemins et de la lenteur “ si chiude con un capitolo d’attualità «Il camminare come rinascita ». «Camminare è ritrovare il proprio cammino. Un modo di progredire talvolta a passi da gigante. La volontà di congedarsi da se stesso per diventare un altro lungo il filo dell’avanzare, logorando la malattia e le tristezze. »
Il cammino oggi
Oggi si assiste al rinnovamento delle attività del turismo culturale, del movimento a piedi e in bici, a cavallo, da soli o in gruppo, alla ricerca di cose e luoghi diversi (l’esotismo del diverso).
Anche le antiche vie romane e medievali che servivano al pellegrinaggio, alla viandanza, al commercio medievale, all’espansione militare, alla colonizzazione, tornano di moda.
In Francia, paese che ha riscoperto il cammino per Santiago negli anni 1950, le cose sono chiare : tutte le vie tracciate rispondono a criteri precisi per essere omologate dalla federazione francese di trekking (solo 15% di asfalto, presenza di alloggi e punti d’acqua, villaggi e chiese) e solo dopo vengono usate come “vie di pellegrinaggio”.
Il trekking, la randonnée pedestre, il camminante, l’escursionista sono concetti precisi e pellegrino è solo colui che fa’ il pellegrinaggio a un luogo “santo”.
Negli altri paesi, come l’Italia, la confusione tra pellegrino e camminante continua… Ed é vero che le sfumature sono infinite nel modo di fare il cammino.
E’ chiaro che un cammino, una via, può essere anche un itinerario di pellegrinaggio, dipende da come uno lo fa’ e perché lo fa’.
Per alcuni è un trekking, una prova sportiva, un’occasione di misurarsi.
Per altri una gita, breve o lunga, l’occasione di incontrare gente e di visitare luoghi diversi dal solito.
I turisti abbondano, becchettano il cammino, saltando di posto in posto, usando le strutture di alloggio come punti di appoggio a basso prezzo.
Ci sono quelli che pretendono di fare il cammino perfetto con un controllo stretto su ogni tappa, su ogni pausa, su ogni rifugio, su ogni euro speso.
Ci sono i bulimici che ne vogliono sempre di più, di km…
E quelli che cercano l’esoterismo, i pozzi di luce cosmica, i punti energetici.
Il cammino soddisferà i loro desideri e riempirà di esperienze tutta questa gente, secondo il loro spirito e le loro coscienze…
Il cammino fuori e dentro.
Il cammino è in realtà il nostro cammino, perché è quasi impossibile sottrarsi alla nostra propria soggettività. Passo dopo passo, facciamo un cammino che alimenta il nostro immaginario privato, anche se poi va a fondersi nell’immaginario collettivo.
Il cammino è anche la risultante tra le nostre aspettative e la realtà, tra il nostro desiderio, la nostra voglia e la nostra resistenza fisica e mentale, tra l’incognita dell’inizio con le sue paure e speranze e la gioia della fine, dello sforzo compiuto.
Il cammino ci obbliga a ritornare ad una dimensione perduta, più umana: quella del camminare.
Il camminante non dimenticherà mai che cosa significhi marciare per 20-30-40 km al giorno. Né lo dimenticheranno i suoi piedi indolenziti.
Ridurre il necessario, portare l’essenziale, pensarci su profondamente e lungamente. Sapere ciò che noi portiamo e perché.
Scoprire se stessi ed imparare….una evoluzione.
Il peso.
All’inizio si porta di più, il cammino è davvero una incertezza.
Noi siamo degli esseri bisognosi e stiamo cercando la nostra autonomia, libertà, indipendenza.
Lo zaino pesa, questo è sicuro, ma si tratta di una necessità. Dopo due o tre giorni e con le prime bolle ai piedi, si entra in una fase ossessiva per scaricarsi del peso superfluo: di questo libro che si voleva leggere, di questo maglione, di queste scarpe in più, di questa guida diventata inutile.
Lo zaino, più o meno pieno, più o meno vuoto simboleggia la sofferenza inevitabile perché troppo pieno o troppo vuoto prefigura il surplus o il deficit, due facce della stessa medaglia.
Bisogna accettare il peso che si porta: in effetti è il peso esatto delle nostre paure meno le nostre sicurezze.
Accettarne il peso significa accettare il carico dei nostri condizionamenti, primo passo per poter camminare più leggeri.
Solo tu devi e puoi portare il tuo zaino, perché lo zaino è il tuo spirito. E’ lui che lo pesa, che lo soffre, che si libera, anche. Quanto pesa lo spirito?
Delle persone e dei personaggi.
Ogni persona sul cammino è un punto mobile che transita.
La maggioranza della gente che incontriamo sul cammino (e noi pure per loro), sono dei punti o delle linee, appena un’immagine o una sequenza.
Nella misura in cui ci sintonizziamo con una persona appare una terza dimensione, il punto e la linea diventano piano, sfera, cerchio: amicizia, disprezzo, comprensione, intolleranza…
Ed in questa multi-dimensionalità c’è anche il passato ed il futuro.
Si viene da un posto (da dove vieni ?) e si va verso un altro (dove vai ?).
Come nelle ragnatele, nei miraggi e nelle illusioni del cammino si fanno intrappolare le personalità immature, i sogni distrutti dalla durezza del mondo.
Sul cammino ci sono dei salvatori e delle vittime, dei templari fantasiosi, delle arpie ospitaliere, dei bonzi del bordone e dei cammini, dei fissati per il cammino.
E’ così, ognuno con la sua pazzia ed ognuno con la sua specificità, leggeri o gravi.
Come se, tra di noi, ci fossimo messi d’accordo, tacitamente, per interpretare ciascuno un ruolo.
Ogni personaggio che incontriamo sul cammino è un’opportunità per scoprire il nostro proprio personaggio, la nostra propria pazzia, la nostra finzione di vita, e così trovare una via d’uscita.
Appare la tentazione di riempire un vuoto vitale presente.
Nello stesso modo in cui il cammino ci insegna a camminare con i nostri due piedi, a sopportare le nostre carenze, così il vuoto della nostra vita non può essere sostenuto che dalla presenza altrui, dalla loro amicizia, dalla loro compassione, dal loro ascoltarci, dal loro appoggio, dalla loro simpatia.
Dice il poeta che si fa’ il cammino andando. Il cammino si fa’ con ogni passo, dandogli un senso. Ed ogni passo ti avvicina o ti allontana dal tuo destino, perché non sempre posiamo bene i nostri piedi.
Buon Cammino! Flavio vandoni